La tragedia greca è costellata di figure femminili forti, dirompenti, capaci di destabilizzare, sovvertire e mettere in crisi l’ordine maschile. È questo il caso di Antigone, che disobbedisce al comando di Creonte. Proprio lui, dopo che la guardia lo ha avvertito che qualcuno ha sepolto il cadavere di Polinice, domanda: «Chi mai fu a osare tanto?». Nel testo originale troviamo qui inserita la parola greca andros – uomo. Letteralmente potremmo tradurre così il verso: «Quale uomo ha osato tanto?». In quest’espressione è contenuta quindi l’idea che la trasgressione sia un elemento attribuibile solo al maschile. Antigone, violando la legge, ha minato anche la virilità di Creonte, il sistema patriarcale che incarna. Ed è proprio a loro, alle figure femminili tragiche sovvertitrici dell’ordine maschile che l’edizione di quest’anno del Campania Teatro Festival è in parte consacrata.
Con Le Troiane, la guerra e i maschi Marcela Serli, regista e autrice del testo, porta avanti una critica ad una pratica prettamente maschile: il mansplaining, ovvero il modo in cui gli uomini pretendono, con tono paternalistico, di spiegare alle donne un concetto, convinti della superiorità della loro intelligenza. Quando il pubblico entra in sala, ha la sensazione di essere arrivato tardi. Sul palco è già in corso una conferenza. Un professore, dietro un tavolo, bofonchia qualcosa. È un incontro su Le Troiane di Euripide e sul tema del femminile, ma nel modo in cui il relatore si rivolge alle donne in sala, si direbbe più che si tratti di un’autocelebrazione del maschio. Quel «Spegnete i cellulari belle signorine» ripetuto più volte è snervante ma ancor di più l’affermazione così esplicita: «Dovrò spiegare alle donne stesse cose sul femminile, che la donna non conosce». La peggiore forma di mansplaining, infatti, è quella con cui l’uomo pretende di svelare alle donne qualcosa sulla loro natura. Il mondo accademico è uno scenario perfetto per descrivere questo fenomeno, dal momento che a dirigerlo sono ancora gli uomini.
Una volta concluso l’intervento volutamente soporifero e noioso, finalmente entrano in scena le donne, come a voler riprendere la parola che gli è stata ingiustamente strappata. Siamo a Troia, alla fine della guerra. La città è caduta, sconfitta dai greci. Le donne sono in attesa di essere assegnate come schiave ai vincitori. Sono Ecuba, la madre, moglie di Priamo. Cassandra, la sacerdotessa. Andromaca, la madre, la moglie di Ettore, la fedele, e poi c’è Elena, colei che ha scatenato la guerra.
Nella disperazione del momento, le donne riescono a confrontarsi sul destino che le aspetta e comprendono che non è poi tanto diverso dalla vita che hanno vissuto finora. È questo quello che nella rilettura della tragedia di Euripide Marcela Serli vuole comunicare: Le Troiane non sono diventate schiave. Lo erano già. È sempre all’interno di un mondo maschile che si muovono e anche lì dove hanno l’impressione di governare, sono in realtà già sempre governate.
Spostandoci dai giardini della reggia di Capodimonte al Teatro Politeama, abbandoniamo una dimensione corale come quella de Le Troiane per accogliere un dramma fortemente individuale, quello di Medea, sola nel suo tentativo di rovesciare Giasone. IMEDEA è la seconda parte di una trilogia che Sulayman Al Bassam, artista di origine araba, ha pensato ispirandosi agli antichi miti greci. In questa rilettura in chiave moderna, Medea è appena giunta a Corinto dove Creonte, il leader populista della città, sta portando avanti la sua battaglia contro i migranti. Medea, così come Antigone, si schiera contro il sovrano ed è per questo che fin da subito ci appare un personaggio fortemente politico con un profondo senso della giustizia. Per protestare inizia uno sciopero della fame. Oltre a questo conflitto, ne vive però un altro all’interno della sua famiglia: Giasone l’ha appena abbandonata per un’altra donna e sta portando avanti le pratiche del divorzio. Nella lettura che Al Bassam ci propone, emerge chiaramente un elemento: Medea vive questa separazione come un lutto. Il modo in cui il rapporto tra i due è raccontato ricorda il film Mariage Story di Noah Baumbach per i dialoghi asimmetrici e la spietata lucidità e freddezza con cui si parlano, frastagliata da momenti di tenerezza. Al Bassam riesce attraverso un minimalismo radicale a rendere tutta la drammaticità dell’esperienza di Medea. I suoi figli, sacrificati dalla madre per vendetta contro il padre, sono rappresentati da alcune arance, che Medea spreme con forza con le sue mani. Quelle stesse arance che nelle foto di famiglia, come lei stessa racconta, erano simbolo di un’armonia, una volta rovesciate diventano l’immagine di un ordine patriarcale sovvertito, ancora una volta, per mano di una donna che ha trovato il coraggio di ribellarsi.
Campania Teatro Festival, Napoli, dal 10 giugno al 12 luglio 2022.