In Turchia l’adozione di deroghe ai diritti umani costituisce da sempre un elemento costante nella vita del paese. Il tentativo di colpo di stato dell’estate del 2016, definito dallo stesso Erdogan un “dono di Dio”, ha di fatto accelerato il processo di involuzione verso un regime autoritario reso possibile per mezzo di una durissima repressione scatenata contro qualsiasi forma di dissenso. Una gigantesca caccia alle streghe che non ha risparmiato nessuno: intellettuali, docenti universitari, insegnanti, politici, funzionari di stato, magistrati e, soprattutto, giornalisti.
La Turchia è diventata oggi la più grande prigione al mondo per i giornalisti. Sono oltre centocinquanta quelli incarcerati, vittime delle pesanti misure adottate dal presidente Erdogan e dal suo governo sulle attività dei media. Dal 2016 un numero impressionante di canali televisivi, radiofonici, quotidiani sono stati costretti a chiudere. A questo si aggiungono le censure e le pesanti intimidazioni.
Stessa sorte ha riguardato il mondo accademico al centro di veri e propri licenziamenti di massa.
Cancellando ogni voce critica, i media sopravvissuti alle purghe sono diventati strumenti di amplificazione della propaganda di governo.
A decretare la morte dello stato di diritto hanno contribuito il sostegno legislativo al governo e il totale controllo di un potere giudiziario connivente con il partito di governo.
Tra le vittime illustri della repressione liberticida voluta da Erdogan spicca il nome di Ahmet Altan, uno dei più importanti autori turchi contemporanei. I suoi romanzi sono oggi pubblicati in tutto il mondo. Per cinque anni è stato anche caporedattore del quotidiano liberale “Taraf”. Un intellettuale da anni in prima linea nel denunciare i mali atavici del paese e che ha sempre sostenuto la necessità di costruire l’identità della Turchia non sulla razza o sulla religione, ma sul rispetto dei diritti umani.
Come molti ricorderanno, il giornalista e scrittore è stato condannato all’ergastolo con l’accusa di essere tra i responsabili del fallito colpo di stato del 15 luglio del 2016. Ahmet Altan è stato accusato di aver lanciato “messaggi subliminali” di propaganda a favore del tentato colpo di stato.
<<Giudicherò coloro che, a sangue freddo, hanno ucciso il sistema della giustizia consentendo l’arresto di migliaia di cittadini innocenti. Non ho il potere di punire la gente né di incarcerarla e, in ogni modo, non vorrei mai avere questo potere. Ma ho il potere di svelare l’omicidio, di identificare l’assassino, di mostrare le armi sanguinarie usate per questo infido delitto e di raccontare i crimini che sono stati commessi>>. Queste parole sono parte del j’accuse di Ahmet Altan contenuto nelle pagine del libro Tre manifesti per la libertà, Edizioni e/o, il cui ricavato delle vendite servirà a coprire le spese legali dell’autore. La casa editrice ha scelto di raccogliere, in questo piccolo volume uscito nell’aprile scorso, le tre memorie difensive scritte da Altan nel carcere turco di Silivri tra il giugno 2017 e il febbraio 2018 e pronunciate di fronte al procuratore e al giudice che lo hanno indagato e condannato all’ergastolo aggravato.
Le parole di Altan, lucide e indignate, si elevano potenti contro il regime personale di Erdogan, divenuto pressoché illimitato dopo la vittoria del referendum costituzionale del 16 aprile 2017 che gli ha consentito di approvare una riforma della Costituzione in senso presidenzialista. Un testo prezioso e indispensabile per comprendere quanto sta avvenendo in Turchia, e su come questa degenerazione autoritaria si rifletta sulla legalità e sulla giustizia nel paese.
Nelle sue memorie difensive, Ahmet Altan capovolge le accuse grottesche e inesistenti rivolte nei suoi confronti in un atto di accusa coraggioso contro un sistema giudiziario complice del potere. <<Ecco la legge della nuova era>> – scrive ancora l’autore – <<è vietato criticare Erdogan. Se lo fate, finirete in prigione. Non sono in galera perché sono un criminale, sono in galera perché lo stato di diritto dei criminali è al potere>>.
Un processo farsa fondato su un impianto accusatorio inesistente, costruito su prove presunte e testimonianze fragili che Altan, con grande maestria argomentativa, mette a nudo smontandole pezzo dopo pezzo. Dalla pagine del libro emerge il ritratto di uno stato di diritto calpestato in cui la legge è piegata agli interessi di un potere paranoico che si abbatte contro ogni voce libera.
Un piccolo gioiello scritto con un’ironia disarmante che smaschera l’ottusità di un sistema corrotto, ne svela le bugie e lo inchioda alle proprie responsabilità trasformandolo da accusatore ad accusato. Una lectio magistralis di diritto penale in un paese vittima di un potere dispotico, ma anche una luce nell’oscurità profonda che ci ricorda che la legge è immortale e che nessun despota può ucciderla.
Ahmet Altan, Tre manifesti per la libertà, Edizioni e/o Roma, 2018, pp. 190, euro 5,00.