ESERCIZI DI MEMORIA > Crocevia di Luca Guido e Marta Marinelli

Foto di Marta Marinelli

Il viaggio di Esercizi di memoria di Marcello Sambati prosegue nella sua seconda tappa con la complicità di Samantha Marenzi, ospite dell’incontro e testimone dei Crocevia tra i luoghi materiali e immateriali attraverso i quali si è snodato il percorso dell’artista: tracce di una cartografia che ci racconta di un prendere parte alla storia creando e lasciando materialmente spazio per generazioni parallele e susseguenti.

Marcello Sambati: Il mio primo spettacolo al Beat 72 si chiamava Prototipi (1980). Il titolo faceva riferimento al prototipo di teatro che volevo creare. Ed era uno spettacolo unicamente di luci: avevo costruito una quarantina di scatolette di legno nere con un buchino davanti e in ognuna c’era una lampadina. Davanti a questi fori c’erano gelatine, filtri di colori diversi, e ogni lampadina era collegata ad una consolle ad interruttore costruita da me. Quindi, nello spazio nero del Beat 72, su distanze sparse come una costellazione, si accendevano queste luci… Luci da suonare, alla maniera di Kandinskij con la sua tastiera di colori. In questo modo è iniziata la mia esperienza di teatro di ricerca a Roma, con questo “prototipo”. Anche quello spettacolo a Franco Cordelli piacque molto… Tra l’altro andai in scena la settimana dopo che Benedetto Simonelli aveva fatto Smart symphony (dicembre 1979) (1), uno spettacolo allucinante per il quale il Beat 72 era stato ridotto ad un massacro: l’aveva riempito di parabrezza di macchine lungo tutte le pareti e lui ed Esmeralda, la sua compagna attrice, usavano delle smerigliatrici per uscire da una gabbia di ferro in cui erano chiusi con il pubblico intorno. Avevano cominciato a segare le sbarre e a riempire il Beat 72 di fumo. Non contenti, usciti dalla gabbia, con delle mazze spaccapietra, avevano iniziato a frantumare tutti quei cristalli dei parabrezza. Un bombardamento, un Beat 72 di macerie. La settimana dopo, invece, c’ero io in programmazione con le mie lucine impercettibili… Ma il Beat era così: una fucina, un luogo dove ogni settimana potevano esserci delle sorprese. Si sperimentavano linguaggi diversi, non c’era un limite alle possibilità, tant’è che Gianni Colosimo fece uno spettacolo postale (2): mandava una raccomandata, una cartolina postale al Beat 72, una al giorno, e quello era il suo spettacolo. C’erano i critici che erano complici, compagni di viaggio, tanto che Cordelli recensì anche lo spettacolo di Colosimo attraverso le cartoline. Anche Leo de Berardinis l’ho conosciuto sempre al Beat. Ricordo una sera in cui lo incontrai quando la SIAE gli aveva contestato dei borderò che erano stati falsificati perché lo spettacolo non c’era stato. «Ma come!» – diceva lui – «Questi borderò sono veri, li ho fatti a mano, uno per uno! Sono autografi! Dovreste pagarmi perché li ho fatti a mano io…». Ma con la SIAE c’erano spesso dispute, perché venivano a vedere i nostri spettacoli e non c’erano attori, non c’erano parole, non c’era niente. Dicevano: «Ma questa non è prosa!» – perché il borderò era per “spettacolo di prosa”, e quindi – «Dov’è la prosa?». Oggi per costruire un ambiente del genere basterebbe qualsiasi luogo – soprattutto oggi. Allora ci voleva quello fisico, adesso ne basterebbe uno anche virtuale, un luogo immateriale…

Samantha Marenzi: Ad esempio, La Lupa è uno spazio a Tuscania che Marcello ha creato una ventina di anni fa. Uno spazio dove le pietre e gli oggetti immateriali convivono, sono in un equilibrio che lui ha saputo orchestrare. Molti di noi, della mia generazione, hanno conosciuto Marcello perché ha davvero costruito degli spazi, dei teatri. Non solo posti dove fare spettacoli, ma dove l’incondivisibile poteva essere coltivato. Lo ha fatto a Roma in due spazi dove io l’ho incontrato, e che lui poi con enorme generosità ha lasciato nelle mani di persone più giovani, che avevano voglia di continuare. Invece lui costruisce, crea il vuoto che è il potenziale della nascita, poi lo lascia e…

Marcello Sambati: Una volta costruito… ne costruisci un altro.

Foto di Marta Marinelli

Samantha Marenzi: Ha costruito il Furio Camillo di Roma; come anche il Campo Barbarico, luogo straordinario che ha vissuto poco, ma forse per questo si è incastrato nella nostra memoria; ha costruito La Lupa dove io e Alessandra Cristiani adesso abbiamo la fortuna di lavorare. Ha creato il vuoto. Però poi in quel vuoto Alessandra crea i suoi spettacoli.

Marcello Sambati: Il Furio Camillo lo presi insieme al mio amico Massimo Ciccolini. Per due anni avevamo gestito un altro spazio che si trovava a San Lorenzo, a via dei Campani, però era troppo piccolo. Il pubblico doveva stare fuori dal teatro, oltre la serranda. Lì riuscii a organizzare una rassegna che si chiamava Quasi umani, con diversi interventi performativi. In tale occasione ospitammo anche Toni Servillo, che faceva insieme ad un altro performer una serata che si chiamava Art-rock-box, uno di quegli spettacoli molto rockettari che all’epoca il Teatro Studio di Caserta portava in giro. Il Furio Camillo era un posto, appunto, in via Camilla, dove c’era questo ingresso con un cortile dietro, circondato da muri con uno stanzone. Mi pare fosse una sede dell’INAIL rimasta in disuso. Di buona uscita ci chiesero cinque milioni di lire e ci costò sperperare la sovvenzione di un anno del Ministero, che all’epoca ammontava a sei milioni. Il primo anno ordinai un telone di copertura da camion delle dimensioni del cortile, lo tesi con gli occhielli e passammo tutto il primo anno sotto il telo in questo cortile, d’inverno accendendo il fuoco nella carriola per riscaldarsi. Poi cominciai a costruire sotto il telo un tetto di legno, impercettibile all’esterno… Un abusivismo perfetto. E quando fu tutto pronto tolsi il telo e all’improvviso era apparso questo tavolato sul cortile. Dopo il tetto cominciai a lavorare anche a tutta la pedana del palco, mentre per il pubblico per il primo anno non avevamo alcuna gradinata, solo un po’ di panche e di sedie, e poi via via, col tempo… Il proprietario naturalmente quando vide il tetto di legno ci chiese di aumentare l’affitto, perché avevamo aumentato il volume dell’immobile. Però a quel punto potevamo cominciare ad ospitare un po’ tutta la ricerca di quegli anni in Italia, e infatti iniziammo ad essere conosciuti dappertutto… Io avevo poi anche dei finanziamenti per la mia piccola compagnia e nello stesso tempo insegnavo, per cui non ero scannato, diciamo, dal dover chiedere i soldi… Le compagnie venivano da tutta Italia ed oltre: instaurammo degli scambi di ospitalità reciproca, visto che anche io dovevo presentare un certo numero di borderò, per cui girare anche senza un cachet poteva valere come autofinanziamento.

Samantha Marenzi: A quel punto è arrivato il Butō al Furio Camillo. È arrivato e soprattutto s’è insediato, perché il Butō ha toccato tanti luoghi a Roma, ma al Furio… Masaki in quegli anni lavorava su questa strategia che lui chiamava “l’intensità del nulla”, quindi è chiaro che lo spazio di Marcello era il luogo ideale: lui vide questa scatola nera e ne fu risucchiato. E dietro di lui, tutti noi, suoi allievi, che poi ci siamo insediati lì. Però anche prima, tanti incontri: Daria Deflorian, Crisafulli, Giovanna Summo… Era un circondario.

Marcello Sambati: Sì, il Butō arrivò con Masaki: io non lo conoscevo e mi fu presentato da Maria Inversi. A Masaki il Furio Camillo piacque subito; lo vide e esclamò: «Ahh, perfect!». Con Daria abbiamo proprio cominciato insieme. Facemmo anche uno spettacolo dal nome L’opposizione delle creature (1988), in cui scivolavamo nell’acqua in una conca di metallo. Una televisione privata – allora cercavano cose del genere – ne fece anche una ripresa con una buona videocamera. Ho ritrovato il video; si vede anche la nostra anguilla in scena, la famosa anguilla protagonista.

Samantha Marenzi: In casi come quelli di Marcello, quando si parla di artigianato non è una metafora. Le cose le fabbrichi, le costruisci per come ti servono. Apparentemente con una grande semplicità, ma poi, di fatto, con un “saper-fare” che è incredibile. Marcello è l’erede di Craig, di quei meccanismi secondo i quali per fare teatro devi sapere segare, lavorare il legno, lavorare il ferro, saper scrivere le poesie, saper fare l’attore, saper fare fotografie, avere una visione. E tutto è assolutamente in equilibrio, sullo stesso identico piano. La generazione dopo che è arrivata in quegli spazi non ha trovato solo la sala per allenarsi: ha trovato questa evidenza per cui le cose vanno semplicemente fatte. Semplicemente fatte. Quando noi siamo entrati al Furio Camillo, abbiamo stabilito con Marcello la regola del baratto: pulivamo i bagni e facevamo biglietteria – nella nostra compagnia eravamo in sette, quindi potevamo fare a turno una sera ciascuno; in cambio usavamo lo spazio per allenarci, per creare, fare ricerca corporea. Ci andavamo la mattina prima che arrivassero le compagnie e poi il lunedì, giorno di chiusura, potevamo fare spettacoli: in questo modo non intralciavamo la programmazione e potevamo dimostrare gli esiti della ricerca. La nostra era totale autogestione e quello diventava il luogo del possibile, con gli spettatori che aumentavano man mano, fino al primo grande Festival Internazionale di Danza Butō (stagione 2000/2001). Questa, secondo me, è stata la caratteristica: se tu fai qualcosa che non ha un contesto, il problema non è mostrare questo qualcosa, ma costruire il contesto. Creare lo spazio vuoto dove poi quel qualcosa può esistere. La cosa veramente sconvolgente di tutto questo – vedendolo sia da dentro che da fuori – è la lunga gettata sul tempo. Ci vuole tempo…

Marcello Sambati: Già, a volte ci vuole una vita…

Note
1) Benedetto Simonelli è attore e regista principalmente teatrale. La sua carriera artistica inizia nel 1970, debuttando con Luchino Visconti e Luca Ronconi. Grazie all’incontro con Giancarlo Nanni comincerà la sua esperienza nel teatro sperimentale, attraversando le cantine romane. Insieme ad Andrea Ciullo, tra il 1978 e il 1980, darà il via ad una serie di performance al Beat 72. Sono di questo periodo: Quel giorno il pazzo si fermò: la deriva dei continenti; L’occhio della mente: itinerario di memoria con tensioni bianco-rosso; Quando incontrammo sul Danubio le stelle: Attila, proposto per una sola sera al Teatro Quirino. La collaborazione scenica con la moglie Esmeralda inizia nel 1979 con le performance The Impossible Track (Centro Arti Visive di Roma) e Midsummer Night’s Dream (per la rassegna di Giuseppe Bartolucci, Passaggio a Sud-Ovest, presso la Reggia di Caserta).
2) Gianni Colosimo, artista poliedrico, intraprende il suo percorso artistico all’inizio degli anni Settanta a Torino, collaborando con la Mobile Action Artist Foundation. Si trasferisce a Roma nel 1978, dove debutta come performer nel mondo del teatro sperimentale. Al periodo tra il 1979 e il 1981 appartengono alcune performance più concettuali ospitate dal Beat 72: L’uomo di Cosenza; Secret message, creato in collaborazione con Franco Cordelli; e lo spettacolo postale La tenebrosa notte di William J. Peirce.