Scene/Ciò che resta è la terza ed ultima tappa di Esercizi di memoria con Marcello Sambati. Dal ricordo delle regie della Passione agli interventi nomadi per il venticinquennale della morte di Pier Paolo Pasolini, il suo racconto ci conduce nelle suggestive atmosfere delle rappresentazioni itineranti. Incontri, collaborazioni, condivisioni. Il viaggio di Sambati nella memoria si conclude con l’ascolto, o meglio, con la pratica dell’ascolto e del raccogliere suoni. Diventa un collezionista di vento e buio. È un vedere, il suo, attraverso corpi che permettono di rendere materiale l’immateriale. Il rapporto con la parola cambia: il messaggio si rivela nella sua urgenza, oltre il significato.
Dalla fine degli anni Novanta alla metà del primo decennio del Duemila, per sette, otto anni ho fatto la regia della Passione, sempre a Tuscania e l’ultima volta a Civitavecchia. Partecipavano professionisti di diversa provenienza e dilettanti, coinvolgevamo gli abitanti, la Pro loco, la scuola, il centro anziani, a volte anche i loro nipoti e alcuni ragazzi down. Ogni anno ho commissionato il testo originale a un poeta. Marco Caporali (1) scrisse un testo bellissimo, Cose future, praticamente una passione luterana, che poi abbiamo anche pubblicato a Tuscania. L’anno dopo il testo l’ha scritto Marco Palladini mentre la Passione di Civitavecchia era sui testi di Turoldo (2). Altre volte ho usato opere di mistiche femminili, Bernadette, Santa Caterina, in cui l’elemento del sangue era centrale. Quei testi, incontrando l’accento umbro-laziale dei partecipanti, mostravano una luce nuova. C’erano dodici Gesù Cristi, uno per ogni stazione, i personaggi erano moltiplicati. In ciascuna stazione, ogni dieci minuti, quando arrivava un altro piccolo gruppo di spettatori, si ripeteva la stessa scena. Ogni stazione aveva i suoi musicisti e i costumi a volte erano inappropriati. Per fortuna a Civitavecchia, dove facevano l’assalto dei Saraceni al porto (3), con circa duecento comparse, abbiamo trovato già tante persone che potevano partecipare.
A darci una mano c’è stato spesso Ettore, personaggio mitologico, un professore di liceo che faceva teatro a scuola con i suoi ragazzi. Un complice di tantissime altre folli avventure. Molte volte ha messo in scena i miei versi. Durante la preparazione e lo svolgimento delle Passioni era sempre pronto a risolvere i tanti problemi che si presentavano. Una volta abbiamo dovuto sostituire Gesù Cristo all’ultimo momento. Arriva Ettore, mi dice: «Marcello, il Gesù Cristo della seconda caduta non può venire, è rimasto bloccato». Mi guardo intorno tra amici e pubblico, dico a uno: «Vieni qua che devi fare Gesù Cristo!»… E lui: «Come Gesù Cristo?»… Questo mette la tonaca, si toglie la pistola. Era un poliziotto. Quindi vedevi Gesù Cristo che estraeva l’arma da sotto la veste.
Ricordo anche quando andammo con Ettore a parlare della Passione al vescovo Carlo Chenis. Era giovane ed era stato chiamato a Civitavecchia dopo i fatti delle Madonne che piangono. Il Vaticano, per calmare le acque, aveva mandato via il vescovo che l’aveva incentivata, chiamando Chenis, all’epoca responsabile delle Belle Arti in Vaticano. Il vescovo ce la fece fare, vedendo che avevamo scelto pochi versi di Turoldo per ogni stazione, e a una condizione. Ci disse: «Voglio essere in scena anche io». Infatti, nell’ultima stazione, in questa specie di palazzo semicrollato, c’era questo Cristo morto e il vescovo seduto su uno sgabellino davanti a lui. Un quartetto d’archi suonava nell’ombra. Era commovente. Il vescovo stava lì ad accogliere il pubblico, a meditare insieme, tutto il tempo. Nell’ultima recita, dopo che ne avevamo fatte una marea, il pubblico era formato anche dagli attori delle altre stazioni, che finalmente vedevano quelle successive. Diventava un rito stupendo.
Avevo già fatto delle rappresentazioni itineranti. Ad esempio, al Mandrione, a Roma, per il venticinquennale della morte di Pier Paolo Pasolini. L’ingresso era a via Assisi, sulla Tuscolana, dove c’era la ferrovia, e da qui il pubblico camminava per un chilometro e mezzo lungo via del Mandrione, chiusa al traffico per l’occasione. Ogni tanto c’erano dei luoghi in cui avvenivano delle performance dedicate a Pasolini. Il percorso era inaugurato da Claudio Morganti e il giovane Roberto Latini con il suono percussivo fortissimo dei tamburi. Era un pezzo di una tragedia greca, non ricordo quale. Più avanti c’era Giovanna Summo (4), sotto gli archi del Mandrione, io avevo scelto di interpretare un pezzo di Poesia in forma di rosa. Era novembre, arrivò all’improvviso il gelo. Cominciammo ad accendere il fuoco per strada. Ogni stazione aveva il suo fuocherello davanti, ci portavano anche il vin brulè bollente.
Da anni sono un collezionista di vento, cioè di tutti quei corpi che lo fanno udire e vedere. Per me in realtà è più vedere che udire il vento. All’inizio mi limitavo a registrarlo, ma il vento, se non c’è un corpo materiale, non lo visualizzi. Lo vedo attraverso le vibrazioni, le carte che volano, attraverso gli oggetti, l’interno degli oggetti, delle giare di terracotta, dei tubi… Quando c’è il vento, se fai passare un registratore davanti a una serie di tubi di diverso diametro, si sentono degli armonici straordinari, naturali. A volte lo lasci lì mezz’ora e quindi registra tutto quello che succede di immateriale e che nessuno coglie mai. È quello che chiamo “teatri di un istante”. C’è un tipo di teatro che dura un attimo. Se non lo cogli, l’hai perso. E allora perché fissarci sempre con queste cose pesanti del teatro di prosa, che devi stare lì due ore a sopportare… Come si fa?
Non smetto di ascoltare. Tutte le mattine, dopo il caffè, fuori di casa con la sigaretta, sento come si svegliano gli uccelli, tutte le chiacchiere che fanno tra loro. Quando ti fissi su un concetto che non riesci a mettere sulla carta e poi senti il verso di un uccello, “cruè-cruè”… diventa chiaro… lo scrivo… scrivo “cruè-cruè”… è proprio quello che io voglio dire, che non riesco a tradurre in parole. Come artista, questo fatto di non riuscire a dire quello che ti arrovella dentro, di non riuscire ad esprimerlo è veramente una sofferenza, come un fiume che non puoi attraversare, a volte sembra che stai affogando… senti di non essere abbastanza libero, abbastanza abbandonato, abbastanza fuori di te per lasciarti parlare, perché qualcosa ti sia parlato dentro. Per questo ci vogliono i tempi. I tempi del lavoro, i tempi della passeggiata, camminare, il tempo del non pensare a niente. In questi anni ho scoperto la mia seconda adolescenza. Ho ritrovato un entusiasmo nella scrittura, nella sperimentazione, nelle cose insomma.
Colleziono anche il buio, l’oscurità, a cui ho dedicato la trilogia L’ospite inconsistente. Tre Lezioni delle Tenebre. Nel primo spettacolo, Dall’oscurità, agivo per tutto il tempo, a piedi nudi, su una lastra di ferro, inclinata a 45 gradi. Poi c’erano degli stop su cui potevo reggermi, anche a testa in giù. In realtà era un attraversamento notturno. Anche lì ci sono registrazioni di suoni della natura con un testo, accanto a musiche piuttosto feroci. Il secondo era L’incompatibile. Avevo preso coscienza che non c’era niente da fare, non mi consideravo “compatibile” con il teatro che c’era in giro. Immaginavo di essere un insetto intrappolato in questa teca di legno, nonostante fosse aperta. Riuscivo a stare sospeso in orizzontale, in aria o seduto su una parete della teca, insomma trucchi abbastanza semplici per uno che passa ventiquattro ore al giorno nel teatro. L’ultimo è Addio, conclusione di questo ciclo. Infatti, avevo pensato di non andare più in scena, ma poi feci uno spettacolo, Natura Requiem – frammenti del tempo finito, dove in scena c’erano tre danzatrici, Sabrina Broso, Chiara Casciani e Alessandra Cristiani. Avevo creato un testo breve, dieci frammenti poetici dedicati a Taranto perché era l’epoca del “massacro” di Taranto, dell’ILVA, la morte della natura. Un disastro ambientale ben espresso dalle danzatrici. Dopo questo spettacolo sono tornato in teatro da poeta più che da attore. Ora privilegio l’ascolto che non è tanto la parola, la recitazione, ma l’ascolto del fenomeno parola, nella sua valenza di poesia, di messaggio. Rifletto molto su come la parola possa propagarsi, penso al richiamo del corno con cui una volta si mandavano messaggi da una montagna all’altra oppure a un grido lanciato, cioè qualcosa di urgente che arriva, qualcosa di necessario che tu decifri al di là del significato. C’è un messaggio per te, quasi un’allerta.
Note
1) Marco Caporali, romano, classe 1956, è poeta e insegnante di italiano nella scuola media. Scopre la poesia a vent’anni. Laureato in Italianistica all’Università “La Sapienza” con Biancamaria Frabotta, inizia a pubblicare su numerose riviste. La sua raccolta Il mondo all’aperto (1991) vince il premio Mondello per l’opera prima. In quegli stessi anni scrive articoli di letteratura per vari periodici e lavora come critico teatrale a “l’Unità”, in particolare per la pagina romana. Invitato da Eugenio Barba a Holstebro, segue la preparazione dello spettacolo Kaosmos. In quel contesto, assistendo alle iniziali improvvisazioni del gruppo, scrive un testo teatrale sulla figura di Martin Lutero e sulla guerra dei contadini. Dal testo estrapola alcuni materiali per Cose future, usato per il Venerdì Santo a Tuscania nel 1998, edito da Tuscania Teatro nello stesso anno e confluito nel libro Il silenzio venatorio (2001). Tra le sue opere Motivi danesi (1996), Alla fine del solco, (2007) e La vita inoperosa (2019).
2) Prete dell’ordine dei Servi di Maria, poeta e pubblicista, David Maria Turoldo (1916-1992) partecipò alla Resistenza e a quel periodo risalgono le sue prime poesie che videro la luce nella rivista clandestina “L’Uomo”. Fin dalla sua prima raccolta in versi, Io non ho mani del 1948, rivela i tratti essenziali della sua poesia, mossa da un forte impegno morale, da un’esigenza di fraternità che affronta, talvolta nei toni caldi della protesta, i problemi della condizione umana. La sua multiforme attività letteraria si è esplicata anche nella saggistica, nel teatro, nella meditazione religiosa e nella traduzione di testi biblici.
3) La manifestazione, che si è svolta per molti anni, rievoca l’incursione, il saccheggio e la distruzione avvenuta nell’813 da parte dei Saraceni della città romana di Centumcellae, l’antica Civitavecchia. Sempre a Civitavecchia, ispirato a questo fatto storico, viene organizzato il Palio Marinaro dell’Assunta e del Saraceno, che tra i tanti momenti di cui si compone prevede la lotta saracena in mare tra i rioni storici della città.
4) Danzatrice, attrice, coreografa e regista. La sua formazione spazia dalle tecniche della danza classica, moderna e contemporanea, alle forme in continua evoluzione della contact improvisation. Dopo un lungo percorso di ricerca e attività artistica nel teatrodanza occidentale, Giovanna Summo si è dedicata alla tradizione scenica indiana del Kutiyattam. Parallelamente all’impegno artistico ha sempre svolto attività didattica rivolta a danzatori e attori.