Sono sempre gli innocenti a pagare il prezzo di una guerra. Mi sembra questo il senso più profondo di Ifigenia in Aulide di Euripide, anche guardando alla versione a cura di Fabrizio Sinisi, messa in scena con la regia di Alessandro Machìa, rappresentata in prima assoluta al Teatro Arcobaleno di Roma il 9 dicembre 2022.
Ifigenia è innocente, è bambina, è incosciente. Incosciente: non fanatica. Il fanatismo è il mezzo con cui sopporta la sorte alla quale non ha potuto sottrarsi. Oggi diremmo che se la racconta. Tra la supplica di essere risparmiata rivolta al padre Agamennone perché «anche una vile esistenza vale di più di una morte gloriosa» e la disposizione al sacrificio, che arriva improvvisa e che ha fatto e fa tuttora molto riflettere, non c’è sostanziale frattura né un percorso emotivo maturo. C’è tutta l’ingenuità di un bambino che si fa esplodere in mezzo alla folla, c’è l’indottrinamento di una tabula rasa, apparecchiata per propiziarsi la festa e brindare alla vittoria, poco importa se sulla pelle di amici o nemici.
I personaggi di Euripide non sono eroi, sono uomini e donne animati da conflitti moderni, arrivisti, egoisti, mossi da ambizioni dozzinali come riconquistare la propria donna infedele o sbaragliare il nemico e trionfare a vele spiegate.
Il resto è ipocrisia.
Euripide osserva la bimba Ifigenia con compassione, non parla attraverso di lei ma ce la offre come inconsapevole vittima delle nostre imposture: nostre, perché questo è un dramma moderno e parla anche di noi. Attraverso Ifigenia indaga relazioni umane, troppo umane, sentimenti e caratteri che poco hanno a che fare con la statura tragica e la dimensione del sacro. Gli dei sono morti o non sono mai esistiti ma servono: servono per i nostri scopi e per giustificare le nostre ambizioni, la sete di potere, il delirio di onnipotenza. Il sacro è lì, confezionato da secoli di inviolabilità e ora pronto per essere strumentalizzato, depauperato prima e oltre la secolarizzazione.
Ne Le Troiane Euripide ha maltrattato i Greci, li ha trattati da criminali feroci: loro, i veri barbari contro le donne e i bambini troiani. Perché mai Ifigenia dovrebbe immolarsi per permettere ai Greci di trionfare su Troia?
Perché è innocente e perché così ha deciso suo padre. La relazione intestina della figlia col padre, l’assunzione senza riserve di una volontà superiore, la sua incondizionata attuazione, è quello che resta del mito, il residuo che sopravvive in lei attraverso la figura del padre. Ifigenia prima di Elettra.
Ifigenia, giovane figlia che porta a compimento il desiderio paterno, non già eroina salvifica del popolo greco. Adolescente non ubbidiente ma compiacente, che compiacendo si emancipa e conquista il primo piano, affermando la sua individualità.
Allestendo il suo funerale, diventando il perno di una giostra mostruosa che le gira intorno, Ifigenia punisce, pur senza intenzione, il mondo dei grandi e il loro cinismo.
Il mito non basta a raccontarlo. Non è più sufficiente o è inadeguato. La mutevolezza dell’animo umano, l’ipocrisia di fronte a se stessi, il non ammettere la propria colpa e la propria bruttezza, la ricerca di un alibi a qualsiasi costo che ci assolva a priori, sono tutti tratti che in questa riscrittura di Sinisi, fedele e a un tempo moderna, emergono chiaramente.
Agamennone non è nemmeno più colui che si strugge nell’incapacità di scrivere la lettera da inviare a Clitemnestra per farsi consegnare con l’inganno Ifigenia, non è più quello euripideo consolato dal vecchio ignaro che amorevolmente lo assiste («Tutta notte non hai fatto che scrivere e riscrivere… scrivevi e immediatamente cancellavi… ci mettevi il sigillo e subito dopo lo spezzavi… Cosa ti è accaduto, mio re, per darti tanto dolore?»).
Sinisi ci consegna un re che ha già deciso ma non lo sa, ci fa vedere Agamennone in tutta la sua ambizione covata senza coraggio e perseguita senza farsene carico («è già tutto scritto», come a dire “io che ne posso, non è colpa mia, sono gli Dei che vogliono la guerra e io sono umile servitore al servizio del popolo”). Pusillanime prima che ipocrita, non si guarda allo specchio per non disprezzarsi. Finché non sarà condotto di fronte a se stesso nel testa a testa con Menelao che gli scaraventa addosso la sua verità: infamante, taciuta (rimossa, diremmo oggi).
Due personaggi piccoli, meschini, che difendono se stessi accusandosi a vicenda, ognuno portatore malato della coscienza dell’altro. Entrambi senza riscatto, nascosti dietro le proprie menzogne, che i due interpreti lasciano ben trasparire. Paolo Lorimer è un Menelao iroso e aggressivo, dai ripensamenti improbabili, avanzati per provocazione o per calcolo assai più che per convinzione. Andrea Tidona è un Agamennone quasi inerte di fronte alle accuse, che sa essere vere. Tidona serve il personaggio con il giusto straniamento, a tratti osservandolo a braccia conserte, come una sorta di sfida alla sua indolenza, e lo attende al varco fino alla fine, quando uscirà di scena portandosi dietro l’eco sbiadito delle sue stesse parole.
Ma la temperatura tragica arriva con lo strazio di Clitemnestra, una bravissima Alessandra Fallucchi, che assume su di sé il peso dell’ingiustizia e con rigore lo rivendica («Se non dico il giusto, replica! Ma se lo dico risparmia nostra figlia»), lo incorpora e lo sconta da madre e da donna, non regina né sposa. Una performance piena di colori e dislivelli ritmici e tonali, la sua, gestita con costante controllo, giusta anche nella gestualità che rende l’impotenza e il dolore, umanissimo, unico in grado di far risuonare l’urlo muto del sacrificio, come un nuovo travagliatissimo parto.
Perché nulla può contro quello che è (sarebbe) un assassinio. Come nulla può il giovane Achille (nel ruolo il bravo Roberto Turchetta), forse il personaggio più distante di tutti dall’eroica figura omerica, qui ridotto a un buffo e pavido affabulatore da quattro soldi, che ripone le speranze in una dialettica persuasiva che nemmeno possiede. Sembra il garzone buono a servizio di una causa che se lo fagocita tutto d’un colpo, seppellendo con un sorriso indulgente (anche del pubblico) le velleità e le buone intenzioni.
Carolina Vecchia è un’Ifigenia di appropriata freschezza, senza sovrastrutture ma aderente alla grazia incontaminata del personaggio.
Sarà sempre lei a tornare in scena per annunciare della sostituzione del corpo di Ifigenia con quello di una cerva, contrappuntata da una performativa danzatrice. Non è più Ifigenia ma parla con la sua voce, non si sa chi sia né da dove arrivi ma è velata come un’Alcesti che fa ritorno dall’Ade. È il deus ex machina: della Dea Artemide o di nessuno, una suggestione, un escamotage che il regista ha accolto per creare un “cortocircuito emotivo” e per ribadire la “natura convenzionale del deus ex machina euripideo”.
In scena restano i due, marito e moglie, padre e madre, due derelitti con i loro rancori, risentimenti, frustrazioni. Una coppia come tante, infelice, malriuscita, saltata in aria, magari annoiata, pronta per Ibsen o Tennessee Williams.
E infine il coro, che in Euripide va lentamente a morire ma lascia di sé una traccia, un ricordo, una nostalgia. Sinisi e Machìa lo recuperano al dramma affidandogli il ruolo di messaggero, pur mantenendone la potenza visiva che porta in scena un peso specifico. Quattro fanciulle rosso-argentate che scortano, replicano, rivelano, infine, spogliandosi della maschera che le uguagliava.
Una nota particolare, indiscutibile valore aggiunto, meritano i costumi di Sara Bianchi, che viene voglia di portarsi a casa. Almeno l’abito rosso di Clitemnestra.
Ifigenia in Aulide
di Euripide
versione italiana Fabrizio Sinisi
regia Alessandro Machìa
con: Andrea Tidona, Alessandra Fallucchi, Paolo Lorimer, Roberto Turchetta, Carolina Vecchia.
Coro: Lorenza Molina, Elisa Galasso, Carlotta De Cesaris, Chiara Scià
scene Katia Titolo
costumi Sara Bianchi
luci Giuseppe Filipponio
suono Giorgio Bertinelli
movimenti coreografici Fabrizio Federici
assistente alla regia Lorenza Molina.
Produzione AC Zerkalo.
Teatro Arcobaleno, Roma, dal 9 al 18 dicembre 2022.