Il 13 dicembre scorso è andato in scena presso il Teatro Centrale Preneste di Roma lo spettacolo Krill – il mare in una stanza, trasposizione teatrale del poema Krill di Gabriele Belletti (opera pubblicata da Marcos y Marcos), realizzata dai pazienti Alzheimer del Centro diurno Italian Hospital Group-Gruppo Korian di Guidonia (RM) in collaborazione con la start-up culturale Saperenetwork. Il laboratorio teatrale è stato guidato dalla dottoressa Beatrice Benet, coordinatrice del Centro diurno, e dal regista Arturo Armone Caruso, che ha curato l’adattamento insieme alla drammaturga Katia Ippaso, con la documentazione video e fotografica di Simone Corallini.
Abbiamo intervistato la dottoressa Benet, che ci ha raccontato questa esperienza.
Da diversi anni il vostro Centro utilizza il teatro come strumento di cura e riabilitazione per i pazienti affetti da demenza. Lo spettacolo Krill – il mare in una stanza si inserisce proprio all’interno di questa esperienza. Come nasce l’idea di questo progetto?
Abbiamo iniziato nel 2008 ad utilizzare le tecniche teatrali nei nostri progetti di riabilitazione, convinti che le emozioni avrebbero dato la motivazione giusta ai nostri ospiti per far riemergere abilità residue che si andavano inesorabilmente perdendo. Inventare una storia condivisa da tutti, legata quasi sempre ai ricordi dei presenti, ricordarla al punto da riuscire a raccontarla memorizzando non tanto la battuta, quanto il senso della frase, lavorare insieme alla realizzazione dei costumi e delle scenografie e, alla fine, portarla in scena davanti al pubblico permette di stimolare molte funzioni, ma soprattutto aumenta l’autostima di queste persone che si sentono sempre più ai margini sia della società che della famiglia.
L’idea del progetto Krill nasce dal desiderio di Marco Fratoddi, condirettore del Festival Europeo di Poesia Ambientale, di trasporre teatralmente, nell’ambito dell’edizione 2022 del Festival, questo poema presentato al pubblico durante la terza edizione del Festival nel novembre 2021. Abbiamo fatto molti incontri preliminari in modo che potessi spiegare loro in quale modo riuscivamo a recitare con i nostri ospiti e con grande piacere ho sentito un bel feeling con il regista Arturo Caruso Armone che è riuscito ad adeguarsi ai tempi e ai modi che per noi erano necessari. Abbiamo, credo, imparato molto gli uni dagli altri e Arturo è riuscito a creare uno spettacolo molto intenso e soprattutto realistico rappresentando un po’ la vita in una residenza per persone con demenza e soprattutto è riuscito a mantenere l’intensità del poema nonostante i siparietti allegri che abbiamo inserito.
Questo testo ci porta a vagare nella mente di una donna anziana, la signora Dina e a esplorare l’oceano della sua identità mutevole che la porta a identificarsi con una balena. Dopo un annuncio radio di una catastrofe ambientale, questo personaggio esce di scena come fosse realmente un animale che è stato colpito da tale disastro. Cosa lega l’immagine della balena uccisa dal petrolio alla memoria di Dina?
Credo che l’interpretazione sia molto personale. Per quanto mi riguarda, ho immaginato Dina prigioniera di una mente che non la sostiene più e rattristata dall’assenza del figlio ma con ancora un grande desiderio di libertà che la fa scappare dalla struttura, mentre tutti pensano che non riesca neppure a camminare. Probabilmente non ha neppure compreso la gravità dell’annuncio sentito, ma il desiderio di essere finalmente libera all’ultimo momento la trasforma in questa balena che si immerge per raccogliere il Krill e gode di questa sensazione di autonomia ritrovata, solo ora è pronta ad andarsene definitivamente, consapevole che il suo viaggio si è concluso per fare spazio ad una nuova vita, la bambina che esce da lei. Ecco, io spero per tutti coloro che soffrono di demenza che rimanga nell’anima il ricordo e la voglia di essere liberi, soprattutto dalla malattia.
Come possiamo immaginare la condizione mentale ed esistenziale di un malato di Alzheimer e in che modo il mare può rappresentarla?
È difficile immaginare cosa succeda nella mente di un malato di Alzheimer o di qualsiasi altra forma di demenza perché si va a fasi. Ci si rende conto delle prime défaillance e si fanno i primi test, arriva la diagnosi e con essa la paura, lo sconforto, la rabbia, poi bisogna vedere come evolve la malattia. A volte arrivano al nostro centro persone che in pochissimo tempo si sono aggravate al punto di non avere più una costante consapevolezza del proprio stato, altre invece sono consapevoli e si impegnano per rallentare soprattutto la perdita di memoria. In quasi tutti riscontriamo ansia, depressione e un grande senso di inutilità e da questo partiamo cercando di ridare loro fiducia in se stessi e nelle proprie capacità, cerchiamo di far riemergere l’autostima dimostrando quante sono le cose che possono fare in autonomia e quante decisioni possono essere prese in famiglia e fuori ascoltando anche il loro pensiero. Il nostro modus operandi ci fa lavorare con la parte sana di queste persone rinforzandola e mostrando loro come superare alcune difficoltà e a guardare il bicchiere mezzo pieno. In questo percorso chiaramente viene coinvolto il nucleo familiare anche per evitare che si sostituiscano al loro caro in ogni azione pensando di essere così di maggiore aiuto.
In che modo questo spettacolo, ricreando scenicamente lo spazio di un ospedale, può restituirci la dimensione di chi, come lei, ha a che fare ogni giorno con questa condizione?
Noi abbiamo cercato di inviare un messaggio positivo dimostrando che la diagnosi di demenza non significa diagnosi di morte. Un messaggio di speranza per i malati e per le loro famiglie, ma volevamo fosse un messaggio anche per le istituzioni affinché comincino a creare più realtà come la nostra dove l’attività principale è la riabilitazione/riattivazione delle persone con demenza. In questo modo i malati possono rimanere a casa più a lungo e soprattutto si entra nell’ottica che queste persone non necessitano solo di assistenza e di un intervento farmacologico. La nostra esperienza, infatti, ci insegna che molti disturbi del comportamento si riescono a contenere proprio con le attività di riabilitazione, tra le quali il teatro riveste sicuramente un ruolo importante.