“Via del Popolo”, la “Spoon River” di Saverio La Ruina di Katia Ippaso

Foto di Carlo Maradei

«Papà, cumi ti sèntisi?». «Cumi a na frunna ncapu a l’albiru». «Allura, m’agghia mitti d’accordo c’u vìantu» («Papà, come ti senti?». «Come una foglia sull’albero». «Allora mi devo mettere d’accordo con il vento»). Questo frammento di dialogo contenuto in Via del Popolo ci consegna il paesaggio intimo su cui si modula l’ultimo lavoro teatrale di Saverio La Ruina, capace di rivoluzionare il diktat imperante su quello che deve essere o non essere “performance”. «Allora mi devo mettere d’accordo con il vento»: Saverio La Ruina, da solo in scena, rivive uno degli ultimi incontri con il padre, nel momento in cui il vecchio genitore cerca di spiegare al figlio che ormai è venuto il suo tempo. Il vento, i paesaggi naturali e quelli del volto umano, le espressioni plastiche conservate dal dialetto, la paura della morte, l’avvento della morte, il trascolorare di tutte le cose del mondo, sono i motivi dominanti di questa tenera, umanissima, opera teatrale, risolta sul palcoscenico del TeatroBasilica di Roma (ormai inequivocabile calamita delle più sincere e rilevanti espressioni dell’arte teatrale italiana, a prescindere dalle generazioni) come un gesto netto e solitario che sembra far rivivere le atmosfere poetiche del romanticismo tedesco.
Dal dialogo tra un figlio che vuole tenere in vita il padre e un padre che vuole andarsene, parte un requiem che è anche un atto di rigenerazione, in cui il tempo si allarga e si restringe attorno ai quadri interiori e fotografici che compongono la partitura scenica. Un’autobiografia in levare e mai in battere (il monologo si chiude non a caso su un punto di domanda) che prende la forma di una passeggiata tra le rovine, una specie di Spoon River mediterranea (l’opera di Edgar Lee Masters viene esplicitamente citata nello spettacolo) che assume i volti, i nomi e la lingua di un paesino calabrese. Per noi che abbiamo sempre frequentato Castrovillari come uno degli epicentri della scena contemporanea – per via del Festival Primavera dei Teatri che negli anni ha saputo farsi, pur con mille difficoltà, calamita di tanti pensieri e invenzioni sceniche -, quest’ultima opera monologante di Saverio La Ruina (uno dei direttori del festival, assieme a Dario De Luca e Settimio Pisano, nonché fondatore della compagnia Scena Verticale) svela il segreto dell’atmosfera calorosa, vigile e umanissima, che si è sempre respirata da quelle parti. Dopo aver indagato fenomeni antropologici lontani e vicini, La Ruina sceglie di narrare con il proprio corpo e la propria voce, senza nessuna forzatura in senso “performante”, la storia della sua famiglia. C’è, in luce, un romanzo (o almeno un racconto) e, se solo l’autore lo volesse, anche un film, in Via del Popolo, che tiene lo sguardo fermo su un’unica strada, una via del centro che si anima e si spopola, si illumina e si spegne, solo con l’azione illusionistica della parola.
Emigrati da un paesino di montagna, il padre e lo zio di Saverio creano, a Castrovillari, una delle realtà vitali della cittadina calabrese, il bar Rio. Etichettati all’inizio come “scemi” (perché montanari) i La Ruina si conquistano, con sacrifici, giochi di prestigio e piccole grandi battaglie per la sopravvivenza, quella rispettabilità tanto agognata che diventa immediatamente assicurazione di futuro per i loro figli. Ma Saverio cambia rotta, non diventa barista né proprietario di bar, come la famiglia desiderava. Per “colpa” di quella sua infallibile capacità di osservazione grazie alla quale oggi, a distanza di tanti anni dagli eventi trascorsi, ci viene restituita la storia di una famiglia, che è anche storia d’Italia, mitologia della vita quotidiana e trattato filosofico sul tempo. Tra riferimenti cinematografici, siparietti comici e indagine antropologica, Via del Popolo tesse, attraverso movimenti minimi e una narrazione autentica, fatta di vita veramente vissuta, la storia di una famiglia che, sottotraccia, rivela anche la natura di una vocazione artistica.

Foto di Carlo Maradei

L’elemento più sorprendente è la tessitura drammaturgica, che si avvolge come una spirale attorno all’azione del tempo (bellissimo il dipinto di Riccardo Di Leo, che cita Gli orologi molli di Dalì), tenendo come metro di misura un cronometro che lo zio Nicola aveva regalato al piccolo Saverio. Le scene di allargano e si contraggono attorno all’atto immaginario della penna che scrive, e pare di sentire il rumore della carta, ascoltando le storie di Via del Popolo, vissute e rievocate da un autentico scrittore, oltre che da un delicato, solitario artista della nostra scena.
Per un’operazione analoga, Steven Spielberg è stata candidato all’Oscar. Ebbene, Via del Popolo rappresenta, per il teatro italiano, ciò che The Fabelmans simboleggia per il cinema: la storia (mai sottolineata) di una vocazione, l’origine di una favola con i suoi riti di passaggio e le prove di iniziazione, l’incantamento di uno sguardo bambino capace di trasformare di segno ogni evento della vita quotidiana. E tutto grazie a quell’istinto mitopoietico che, in un mondo di consumo macabro e spettacolare, sa elevarsi al di sopra delle trappole seriali della narrazione. Per restituirci con naturalezza i nostri morti e rendere più umani i non ancora morti.

Via del Popolo 

di e con Saverio La Ruina
disegno luci Dario De Luca
collaborazione alla regia Cecilia Foti
audio – luci Mario Giordano
allestimento Giovanni Spina
dipinto Riccardo De Leo
produzione Scena Verticale
organizzazione generale Settimio Pisano.

TeatroBasilica, Roma, dal 10 al 15 gennaio 2023.

Tournée:
Teatro Contoli Di Dio, Calascibetta (Enna), 23 febbraio 2023
Zō Centro Culture Contemporanee, Catania, 25 febbraio 2023
Villa Carcina, Brescia, 27 aprile 2023
Teatro dell’Albero, San Lorenzo al Mare (Imperia), 29 aprile 2023.