Ad aprire l’edizione 2023 del Festival Equilibrio, nella cavea dell’Auditorium Parco della Musica di Roma è stato un lavoro di Alessandro Sciarroni con i giovani studenti dell’Accademia Nazionale di Danza, “derivativa” questa forma iconica da quella matrice di straordinaria efficacia evocativa ch’è FOLK-S will you still love me tomorrow? E già nel titolo, Ouverture, il piccolo gioiello della durata di circa otto minuti è replicato una seconda volta nella stessa serata, e si intuisce (crediamo di intuire) il suo approccio generativo nelle molte intersezioni di significato di una partitura già di per sé scomponibile, solare e analitica, in altre parole una costruzione coreografica modulare, capace di definirsi strategicamente ogni volta nel corpus degli interpreti che ne spostano il paradosso concettuale (e figurativo) con aggiornate versioni sempre caratterizzate da una graffiante ironia, dal 2012 a oggi. Leggiamo in questa diagonale l’apertura (appunto) che muove Ouverture col nutrito numero di performer, un tratto corale dal quale si evince singolarità perfettamente calate all’interno del “giogo” dello schuhplattler, il codice del ballo tirolese che reinventa se stesso, quasi un incipit di senso pròdromo del festival tutto. A seguire nella serata è, difatti, The seven sins a rilanciarne la trama con un’operazione uguale e opposta imbastita dal Theaterhaus Stuttgart per mano di Eric Gauthier. Se Sciarroni governa un ensemble di ragazzi di diversa provenienza impostando una ulteriore possibilità dell’ormai storico FOLK-S, trovando così una scrittura persino commovente, The seven sins offre allo spettatore quadri in successione dei peccati in questione smontati come carte sparigliate che abbisognano di un ordine, lasciato a noi da ricomporre, alle nostre sensibilità.
Uguale, perché è un gruppo di danzatori che si mettono in gioco al servizio delle coreografe e coreografi chiamati (Sidi Larbi Cherkaoui, Aszure Barton, Marcos Morau, Marco Goecke, Hofesh Shechter, Sasha Waltz e Sharon Eyal), seppure in formazioni variabili; opposta come operazione per quella latenza da gàla spettacolare che incornicia l’operazione, decisamente diversa dalla proposta di Sciarroni, chiamando qui a raccolta buona parte dell’espressione coreutica internazionale consolidata presso il grande pubblico. Un pubblico evidentemente edotto e che si lascia condurre nel godibile fraintendimento tra evento e innesco dei linguaggi messi in gioco, garantendo sempre una misura che gli (eccellenti) danzatori possono avanzare. È la cifra di Equilibrio, d’altronde, spiazzare consolidando al contempo, tenendo assieme uguali e opposti tracciati, trattenendosi dallo sbilanciarsi verso territori impervi. Altra sfaccettatura di questa edizione è la giusta messa in relazione (altrimenti detta collaborazione a più livelli) dello stesso con strutture e ambiti che su Roma, con responsabilità diverse, agiscono la danza. Ecco allora al Teatro Argentina il debutto cittadino di Ink dell’osannato Dimitris Papaioannou, spettacolo che rifugge dalle definizioni e, come per le complessità ricercate da Jan Fabre approdate a una essenziale opulenza (l’ossimoro rimarca le anime eversive del fiammingo che ha sempre strizzato l’occhio al pop), si comporta come un contenitore di elementi tutti parimenti utili a una scrittura corporea e visiva potente e meta-teatrale (anche in questo caso “spettacolare”), sebbene debordante verso un effervescente risultato persino gotico. Di tempo n’è passato dall’inchiostro “elettroforetico” della compagnia mk (sul finire degli anni Novanta) all’inchiostro “materico” di Papaioannou, quasi un ritorno in questo presente di un certo discorso della corporeità che si fa elemento nel tentativo di definire una architettura, uno spazio (scenico) dell’azione quale atto creativo assoluto, prima ancora dell’intervento di chi quello spazio lo abiterà.
Si compone e scompone davanti ai nostri occhi una scena dove gli elementi, anche naturali, agiscono da detonatori drammaturgici al servizio di due performer straordinari, lo stesso regista e autore e il giovane danzatore tedesco Šuka Horn, indicato come “uomo nudo” in locandina, figura opposta e alter ego dello stesso Papaioannou. Getti d’acqua che irrompono prodotti da un sistema d’irrigazione visto nei campi assetati delle campagne in estate, pareti e pavimentazione impacchettati in un traslucido nero di cellophane, quasi una piscina-laboratorio sul palcoscenico che si converte così in un’arena col corpo-a-corpo del regista con gli schizzi, il getto prorompente e la fantasmatica (che si farà sempre più delineata e carnale) altra figura. È l’altro, una propria ferita, un figlio, memoria sbiadita, il proprio amante, il parto di un azzardo scientifico (rievocando una certa mitologia letteraria del diciannovesimo secolo, propriamente gotica), il rapporto tra i due è, di fatto, l’enigma poetico dello spettacolo, decisamente “impressionato” pittoricamente e dove il tratto caravaggésco immortala tagli di luce (anche riflettenti, per via della molta acqua) sempre scritturali. Armeggia un polipo (vero?) come in una lotta, essere inanimato che assurge a ulteriore elemento straniante anche nelle fattezze di un pargolo, quasi a rievocare sopiti desideri di paternità, ammantata di acida amorevolezza quando il desiderio è ego riferito. Torna ai temi a lui cari (mai del tutto eclissati), invece, Virgilio Sieni, con cadenza ormai evidente negli anni dove la sua concentrazione filosofica va a indagare gesto, corpo, mito e memoria, sempre più aggiornabili alle intemperie di questo momento storico, seppure non sembri così evidente ad uno sguardo disattento. In collaborazione con ORBITA | Spellbound – Centro Nazionale di produzione della Danza, il festival ha ospitato al Teatro Palladium lo spettacolo Satiri nell’ambito di un focus sull’autore fiorentino, quanto mai necessario nel rimarcare una storia esemplare del pensare coreografico nel nostro Paese, quale sintesi di immaginari.
Sul palco con Maurizio Giunti e Jari Boldrini, in scuderia ormai da tempo e vero rilascio del Sieni pensiero nella gestione di un fraseggio gestuale diventato logo d’autore, la violoncellista Naomi Berrill di straordinaria bravura anche nel sostenere il disegno sonoro con la voce, un non-cantato di rara bellezza così definitivo nel suo essere prolungamento dei brani eseguiti del sempre adorato Bach. Ma tornando al lavoro, quello che sorprende di Satiri è il tentativo dell’autore di disinnescare le certezze acquisite nel proprio portato coreografico, come per smontare dall’interno le “verbalizzazioni” fisiche che tanto hanno incarnato di quella scuola un comportamento originalissimo. Sono splendide le sottrazioni, le fughe accennate dalla propria comoda riseca evocativa, quasi una contrapposizione del gesto nel momento dell’accadere, un ripensare nell’attimo esatto in cui va a compiersi il gesto, e i due sono superlativi. Abituati come siamo stati alla confezione anche sfavillante degli ultimi anni di Sieni, così evidentemente in continuità con il già detto dello stesso Sieni, sorprende qui il portato di dolore e di incompiutezza, di solidarietà tra vittima e carnefice, di masticazione del loop filosofico, non superficie ma “ruminazione” del pensiero che si fa corpo, e in tutte le materie che compongono la rammemorazione del satiro e del capro si ispessisce di un piano per certi versi politico, così prossimo, così attuale in quella trasfigurazione, un tratto essenziale ma pieno di simmetrie, una per tutte citata dallo stesso autore con Nietzsche. Esseri naturali e immaginari che intrecciano azioni l’uno nell’altro, specularmente o in antitesi emotiva lì a raccontarci gli ultimi giorni di un tempo che non sarà più, di un modo di immaginare il corpo già oltremodo sconnesso con l’idea stessa di armonia, a raccontarci la resa del divino nell’oggi – direbbe Aldo Schiavone – in balia di un capitalismo sentimentale e ferocemente vittorioso, all’impossibilità di una ricomposizione con lo spirituale per via di una frattura senza ritorno. Per questo, un racconto tragico. Spettacolo sublime.