Rivolgo una domanda a chi vorrà rispondere perché io, dopo decenni di assidue frequentazioni teatrali, la risposta non ce l’ho.
Mi si è ripresentata tre volte in queste ultime due settimane dopo avere assistito a tre classici, ormai, o forse no, non ancora.
Perché è un classico l’Edward Albee di Chi ha paura di Virginia Woolf, è un classico l’Harold Pinter de Il compleanno? Certamente lo è, in toto, Luigi Pirandello di cui Come tu mi vuoi mi ha ravvivato la questione.
La domanda riguarda la percezione dello spettacolo, il suo variare in base alla pregressa o meno conoscenza del testo, e non tanto per il livello di attenzione richiesta, non tanto per il piacere di soffermarsi sui diversi modi di porgerlo, ma proprio perché il rapporto con l’evoluzione dello spettacolo è differente e lo è in modo sostanziale. Anzi, domando anche questo: è differente in modo sostanziale?
È davvero un vantaggio conoscere il testo a menadito, magari perché ce lo siamo appena riletto, è un gioco utile andare in cerca di interventi posticci, tagli, attualizzazioni cosiddette che fluttuano indomite tra epoche e latitudini, quelle che ti permettono di avanzare le tue ragioni sufficienti per accoglierlo o per uscirne infastidito?
E se un vantaggio lo è, lo è anche dal punto di vista emotivo? Cosa cambia rispetto a quella che si chiama coscienza estetica, riflesso immediato di emozione in atto?
Come avrei recepito e accolto lo stesso spettacolo se non fossi stata a conoscenza della trama, dell’epilogo, della presenza o meno di una soluzione al conflitto, di un deus ex machina, della possibilità o meno di una catarsi?
Mi riferisco allo spettatore medio, che a teatro ci va non per caso, non trainato, non per ritrovare il volto tv, lo spettatore che ha letto Pirandello, che conosce i grandi testi shakespeariani, che forse ha letto Pinter ma forse anche no.
Perché io, questa domanda, me la sono posta con insistenza dopo avere assistito a Il compleanno, il testo di Pinter messo in scena da Peter Stein, uno spettacolo formidabile, che mi continua a lavorare dentro.
Come in molti allestimenti di Peter Stein, l’ambientazione è quotidiana, improntata a un realismo domestico e senza eccessi, fatto di pochi arredi frugali che di per sé dicono poco. Un tavolo, poche sedie, porte e finestre che indicano un altrove non meno quotidiano. La cucina, l’ingresso, il piano superiore.
Anche la situazione iniziale è nel segno della routine. Un lui (Fernando Maraghini) che legge il giornale e una lei (Maddalena Crippa) in cerca di buone notizie sul giornale di lui, attraverso domande incalzanti, ripetitive. Sono i gestori di una pensione di un’imprecisata cittadina sul mare e parlano di uno spettacolo dove non si balla e non si canta e allora che si fa.
Succede pochi minuti prima che Pinter irrompa in tutto il suo afflato contaminando persone e cose. Ha il volto sfatto di Stanley, unico ospite della locanda, estraneo e intimo a un tempo, perturbante e perturbato all’annuncio che stiano per arrivare due nuovi ospiti. Nel ruolo Alessandro Averone, che mi ha catapultato in un attimo in un’atmosfera da Qualcuno volò sul nido del cuculo, fitta di retropensieri pericolosi, di respiri ansimanti e sudore stantìo, di desideri in stand by che non si nascondono nei gesti indolenti, di risate ferine con cui ci lascia sospesi a metà spettacolo. Stanley si muove come uno che conosce bene l’ambiente e la situazione ma è una sorta di alieno, aggressivo, probabilmente mitomane (o forse no?), che rivendica un passato glorioso e una carriera di pianista improvvisamente interrotta, e se già non sapessimo che non farà nulla di male, potremmo pensarlo. Un personaggio costruito e reso benissimo, che ti sfida a spiarlo passo passo, per cercare di cavarne qualcosa. Cosa pensa, cosa sospetta, cosa trama, da chi e da cosa si nasconde.
Perfettamente equivoco, innesca comportamenti equivoci nella signora, che ora lo tratta come un figlio un po’ sciamannato ora cede a una seduzione che ha del molesto, disegnando subito i primi tratti comici del personaggio. Che decollano quando racconta delle gesta di Stanley ai primi venuti, un momento esilarante in cui Crippa tinteggia di assurdo ruspante la povera locandiera, che non deve capirci un granché ma proprio per questo si lascia travolgere. E riferisce, infarcisce, distorce, dando il via a una serie di probabili frottole che si accavallano, generando un comico effetto domino che si stampa nei volti dei due avventori, Gianluigi Fogacci e Alessandro Sampaoli, perfetti nel recitare caratteri, nel rendersi buffi e al contempo inquietanti, indecifrabili, il fiato sul collo, l’anima nera e le intenzioni sospette, non dichiarate benché siano lì apposta per Stanley.
Da una parte il tran-tran di tutti i giorni, annoiato, sbiadito, ribadito dalla stessa colazione, la stessa lettura dello stesso quotidiano, il tran-tran dove l’intruso è ormai inglobato, il tran-tran interrotto soltanto dall’arrivo di una vitale fanciulla (Emilia Scatigno) che consegna un regalo; dall’altra la minaccia che arriva da fuori sotto forma di due figuri grotteschi, loro malgrado, che si libereranno in un interrogatorio violento, di una violenza in crescendo, satura di parole e fatti inventati, accuse vaghe di tradimento, provocazioni, illazioni, azioni cattive culminate nel sottrargli e rompergli gli occhiali da vista.
Due sadici torturatori che sembrano usciti da un incubo e forse lo sono, loschi bulli d’antan di cui però non si conoscono bene ragioni e intenzioni, provenienza e destinazione, due caricature, insomma, manovrate, eterodirette, esse stesse aliene e alienate.
Ma è nel rapporto tra assurdità e quotidianità che si snoda questo Pinter (e non solo questo), su quel confine labile tra concretezza di un mondo che è come appare, nulla più, e allusione a un mondo altro, del complotto, della minaccia, dell’intrigo: un mondo che contrasta e contagia, che si unisce ai festeggiamenti di un compleanno farlocco concedendosi tutte le licenze del caso e poi se ne va, senza soccombere né trionfare, senza dar spiegazioni. Portandosi dietro l’intruso come un animale ferito, arreso, un fantoccio inerme che emette versi spasmodici, al quale sembra abbiano cavato gli occhi.
L’incomodo è normalizzato, silenziato e infine castigato per sempre. Nient’altro si sa, nient’altro si lascia intendere.
In scena restano i due annoiati gestori, ora un po’ meno annoiati, ma solo per poco. Lui le chiede dov’è Stanley, lei risponde in camera sua e intanto danza, bella, radiosa, ubriaca. E magari ci crede.
Perché domani si ricomincia. Il tran-tran si era solo interrotto.
La regia lavora sui due piani, li avvicina e li allontana, permettendoci di riconoscere in attività inoffensive la portata quasi tragica di qualcosa che sta per accadere o che potrebbe accadere, una minaccia incombente di fronte alla quale siamo ignari e inetti a difenderci.
Sensazione anche fisica, questa, che ti resta incollata per un bel po’. Uno spettacolo da rivedere, che potrebbe parlare molto di questo tempo presente, dopo avere resettato il possibile. Ma non è facile.
Il compleanno
di Harold Pinter
traduzione Alessandra Serra
regia Peter Stein
assistente alla regia Carlo Bellamio
con Maddalena Crippa, Alessandro Averone, Gianluigi Fogacci, Fernando Maraghini, Alessandro Sampaoli, Emilia Scatigno
scene Ferdinand Woegerbauer
costumi Anna Maria Heinreich
luci Andrea Violato
assistente alla produzione Cecilia Negro
produzione Tieffe Teatro Milano/TSV-Teatro Nazionale/Viola Produzioni srl.
Teatro Sala Umberto, Roma, dal 31 gennaio al 12 febbraio 2023.
Prossima data:
Teatro Due, Parma, 4 e 5 marzo 2023.