È un lavoro costante quello che Roberta Nicolai, direttrice di Teatri di Vetro/triangolo scaleno teatro, ha intrapreso ormai da tanti anni, battendo un percorso di ricerca di grande rigore estetico e poetico che non si è mai interrotto nel tempo. Anzi, se possibile, si è arricchito in virtù di una sperimentazione continua sostenuta da un pensiero critico finalizzato a entrare nelle maglie del processo di creazione per comprendere il “potere trasformativo” dello spettacolo in relazione ai complessi dispositivi che lo compongono.
In occasione dell’ultima tappa della 12^ edizione di Teatri di Vetro, dal titolo emblematico Oscillazioni, mi è sembrato importante mettere a fuoco insieme a Roberta alcuni aspetti essenziali del composito e articolato cammino tracciato. Un’occasione per riflettere su alcuni tratti salienti della scena contemporanea e dei suoi “naturali” mutamenti.
Leggendo i materiali della 12^ edizione di Teatri di Vetro, la mia attenzione si è focalizzata sull’ultima sezione: Oscillazioni. Perché “Oscillazioni”? Tra cosa si oscilla? Ci sono due posizioni estreme tra cui ci si muove o, piuttosto, il termine esprime una coappartenenza tra rivelazione e nascondimento di quell’Ereignis (Evento) di heideggeriana memoria?
La tua domanda apre un ulteriore piano di riflessione.
Il termine Oscillazioni sta ad indicare il disequilibrio in cui vengono messe le convenzionali posizioni degli spettatori da una parte e degli attori dall’altra, della sala e della scena.
Lo devo a Erika Fisher-Lichte che nella sua Estetica del performativo individua nel “loop di feedback” il processo di scambio tra attori e spettatori, affermando che ha luogo sia rispetto ad uno spettacolo nel suo complesso che su ogni singolo elemento (1).
La trattazione di una nuova estetica, che teorizza e mette in primo piano il potere trasformativo dello spettacolo, ha risuonato nella mia pratica di osservazione dei fenomeni scenici dell’ultimo decennio, nelle prospettive estetiche con le quali ho operato scelte e creato progetti.
La necessità di individuare la specificità della scena contemporanea, di far emergere le ragioni interne, a volte sottese, della creazione, di poter restituire all’esterno la ricchezza e la vitalità dei singoli gesti artistici mi ha guidato nella costruzione del progetto Teatri di Vetro per il triennio 2018-2020, radicalizzandone l’impostazione rispetto alle precedenti edizioni e al suo storico, nella fiducia che l’esperienza estetica proposta agli spettatori operi in loro una metamorfosi e che ancora oggi “la co-presenza corporea di attori e spettatori nella produzione performativa della materialità e nell’emergenza del significato, è ciò che rende possibili tali processi di trasformazione”.
Oscillazioni è una reazione creativa all’appiattimento artistico e progettuale. La creazione di uno spazio per una nuova possibilità della scena.
L’architettura progettuale è generata da questa esigenza e si è concretizzata nel far deragliare la creazione restituendola non più soltanto come opera ma anche in una costellazione di eventi minuti, gesti artistici, dispositivi scenici paralleli e difformi. In modo semplice potrei dire che ho dialogato con gli artisti per creare le condizioni per “esporre il processo”. Ma l’obiettivo non è stato mostrare qualcosa di incompleto o aprire il back stage. Piuttosto tentare di creare le condizioni per mettere gli spettatori a contatto con il centro, con quella zona instabile che realmente “muove” la scena,
Ma come dicevo il tuo rimando a Heidegger apre una nuova prospettiva.
Se l’Evento è il concetto centrale sul quale incentrare una riflessione sull’estetica, come apertura di orizzonti possibili, interruzione della linea indifferenziata della durata, individuazione di una esperienza significativa, esperienza di un nuovo principio fondante della comunità di un popolo, principio inaugurale, accadimento principiale, esperienza linguistica significativa che avviene per il tramite dei linguaggi artistici (2) allora il termine Oscillazioni è il Nome dell’Evento. Quel Nome dato per liberarsi dallo stupore e dall’horror generati dal trovarsi di fronte all’infinità, una forma di chiusura, che circoscrive la cosa e permette di individuare l’evento.
Quale è il filo conduttore che unisce le cinque tappe che compongono il percorso della Rassegna?
Ogni sezione è la declinazione dello stesso pensiero. Mi risulta impossibile dialogare con la creazione contemporanea e ingaggiare spazi e contesti territoriali senza strutturare una proposta plurale. In questa azione non si può essere generici né tanto meno cercare un consenso generalista.
La progettazione è un’azione nel reale, è arte del fare – 41 dispositivi scenici, 14 laboratori e, con Porta un pensiero, 6 appuntamenti seminariali – un’azione artistica che si esplicita in tempo, pensiero, oggetti concreti. Parto sempre dalla messa a fuoco dei progetti degli artisti – a volte anche chiedendo loro progettualità specifiche – per informare i contesti. La suddivisione in sezioni nasce dalla tensione, prima immaginata e poi costruita, tra il progetto artistico e il contesto territoriale.
Ogni sezione diventa la declinazione nel reale dell’unico campo di indagine: la relazione tra la scena e la sala, tra gli attori e gli spettatori ma è evidente che nelle diverse sezioni compare ad un grado diverso di realtà e si esplica a volte in modalità precise ma semplici.
Ad esempio: nel Focus Young Choreographers Mediterranean area l’obiettivo centrale è stato alimentare l’incontro tra i coreografi – il siriano Alzghair e il tunisino Manai – e gli allievi dell’Accademia Nazionale di Danza che hanno usufruito delle masterclass e che poi all’Angelo Mai hanno partecipato agli spettacoli. La programmazione della serata ha messo in campo tematiche sensibili per uno spazio come l’Angelo Mai – lo statuto di rifugiato, i gesti fisici di resa, di assalto, l’orizzonte della libertà espressiva… tutti elementi compositivi delle coreografie – affiancando la proiezione di un film documentario sulla nascita di spazi e attività culturali in Tunisia dopo la Primavera araba. La costruzione della giornata è stata dettata dalla volontà di far convergere e incontrare tre soggettività – gli artisti, i giovani danzatori accademici, gli spettatori frequentatori dello spazio e del festival – intorno ad una proposta di danza che potesse attivamente coinvolgerli.
Al Teatro del Lido di Ostia abbiamo presentato quattro lavori. La progettazione è partita ad agosto con le interviste che Enea Tomei ha realizzato sul territorio per la produzione di OASI, Comizio sui valori. Oltre a questo lungo processo in cui i cittadini sono stati coinvolti come produttori di contenuti, abbiamo realizzato altri tre laboratori: con i bambini di una Seconda Elementare in relazione alla danza di Cie MF, con i rifugiati del CAS Salorno all’Infernetto per la produzione di Tanto non ci prenderanno mai di Dehors/Audela, con dieci cittadini di diversa età e professione, danzatori nell’immaginaria balera de Lo spazio delle relazioni di Sonenalè.
Non abbiamo presentato quattro spettacoli – non solo. Abbiamo creato un tempo e uno spazio che ha consentito la costruzione di relazioni – con le persone – a partire dalle esigenze dei progetti artistici e dalle tensioni che questi attivavano nei contesti.
Oscillazioni in questa macro-struttura si colloca come punto di arrivo. Il nucleo in cui il contenuto si risolve e tocca il suo punto più profondo, teorico e pratico.
Il 2018 è il primo anno di una nuova stagione. La messa in Forma di un pensiero. Generare dispositivi diversi per invitare gli spettatori ad un contatto intimo con la creazione, per mettere le posizioni convenzionali di chi è in sala e di chi è sul palco, in uno stato di squilibrio, di oscillazione. Cercando la qualità alla relazione.
TDV12 ha istituito una particolare relazione con differenti territori: da Tuscania a Ostia, oltre che Roma. “Sconfinare” è uno stato dell’anima. Con il tuo progetto ti sei spinta “oltre” qualcosa. Hai “attraversato” luoghi non soltanto geografici, ma anche e soprattutto spazi culturali. Lo “sconfinamento” quanto si è tradotto nel ri-conoscimento della partecipazione?
Nel percorso di questi dodici anni lo sconfinamento è stato una pratica ricorrente e multiforme.
I primi anni di Teatri di Vetro sono stati caratterizzati dalla doppia programmazione: Palladium per gli spettacoli convenzionali e Garbatella – cortili, giardini, case private, sottopassi, scuole etc. – per i site-specific. È stata una pratica costante di connessione tra dispositivo scenico e spazio della rappresentazione che si è tradotta, dal 2014 in poi, in un’esplosione della mappa su tutta la città.
Inoltre, dal 2008 al 2011, abbiamo realizzato una delle Officine culturali della Regione Lazio, nella zona del litorale nord, dei monti della Tolfa e della zona dei laghi. È stato un esercizio importante e in qualche modo fondativo. L’esperienza si è conclusa, ma il tesoro di relazioni, in particolare nella Tuscia, ha continuato a generare progettualità.
Nel tempo il festival è divenuto la zona emersa di un progetto esteso, e lo sconfinamento da geografico si è interiorizzato fino a divenire strutturale, un costante contatto con il limite.
Tutto ciò ha a che vedere con il concetto di spazio.
Qualche giorno fa al Teatro India all’interno di Porta un pensiero – il ciclo seminariale costruito insieme a Giulio Sonno – parlavamo proprio di Spazio. Dal momento che il progetto era stato configurato esattamente come un momento conviviale in cui ognuno porta qualcosa – da qui il titolo – ho portato un reperto archeologico, la mia tesi di laurea in Filosofia antica dal titolo La filosofia pratica e il problema del coraggio in Aristotele.
C’è una bizzarria in quella tesi, un’Appendice che sviluppa la teoria del giusto mezzo – tra un eccesso e un difetto la virtù è nel mezzo (3) – non più sulla linea, né sul piano (4), ma nello spazio facendo assumere alla tensione individuale nell’edificarsi eticamente, indirizzando e correggendo le tensioni che ogni individuo ha naturalmente rispetto ad ogni virtù, la forma di un prisma.
Ecco questa è ancora la mia percezione dello spazio come zona della possibilità: è l’azione che costruisce lo spazio facendone un volume determinato da vettori, cioè dalle forze in campo.
Mi colpisce e mi risuona in tal senso anche la distinzione che Michel de Certeau pone tra spazio e luogo (spesso citata da una cara amica, Viviana Gravano, per la quale ho grande ammirazione):
<<È un luogo l’ordine (qualsiasi) secondo il quale degli elementi vengono distribuiti entro rapporti di coesistenza.
….
Si ha uno spazio dal momento in cui si prendono in considerazione vettori di direzione, quantità di velocità e la variabile del tempo. Lo spazio è un incrocio di entità mobili. È in qualche modo animato dall’insieme dei movimenti che si verificano al suo interno.
Insomma, lo spazio è un luogo praticato>> (5).
È evidente che i teatri di questa edizione sono spazi e non solo luoghi. Hanno una storia, una progettualità, una vocazione. Ma è anche chiaro che l’attraversamento da parte di Teatri di Vetro non si propone come neutro, mette in campo ulteriori tensioni, forze, azioni che tendono alla sua ulteriore trasformazione, allo spostamento, ad un’edificazione, seppur temporanea, nella Forma del progetto.
Come hai selezionato gli artisti?
La programmazione è stata costruita da agosto 2017. Sono partita da artisti fondamentali per me, con i quali ho avuto modo di condividere non solo il pensiero ma anche le pratiche.
In modo diverso ognuno di loro era presente ad uno snodo, una crisi, un ribaltamento. Li ho voluti pensare come gruppo ideale per l’avvio di questa nuova stagione. Sono artisti – Chiara Lagani/Fanny &Alexander, Marta Bichisao e Vincenzo Schino/Opera bianco, Isabella Rotolo e Simone Perinelli/Leviedelfool, Salvo Lombardo/Chiasma, Marco Valerio Amico e Rhuena Bracci/gruppo nanou, Mariano Dammacco e Serena Balivo/Piccola Compagnia Dammacco, Simona Bertozzi/Nexus – che disegnano, nella mia personale angolazione di osservazione, una mappa del contemporaneo, parziale ovviamente, ma significativa.
Dal punto di vista disciplinare, dal punto di vista generazionale, dal punto di vista poetico, rappresentano una dilatazione, un superamento dei limiti. Il gruppo si àncora nella tradizione della ricerca e in quella del teatro del ‘900, assumendo su di sé la responsabilità dello scarto; abbraccia prospettive coreografiche opposte nell’ambito della danza, aprendo la scrittura del corpo a teorie e teorizzazioni, senza mai rendere il discorso univoco; lavora a contatto con modelli e stereotipi, ribalta e traduce fonti, rivendica un territorio di rischio, di azzardo, di vuoto; ibrida elementi e materie; affronta con coraggio la fragilità della scena. Sono tutte questioni etiche oltre che estetiche.
Sapevo che potevo chiedere loro più di quanto loro chiedessero a me…
<<… interrogare il processo di creazione assumendo la prospettiva della sua complessità, del suo procedere non per linea retta, del suo deragliare e lasciare tracce, residui e scarti. Di concretizzare il desiderio di mettere lo sguardo su parole isolate, su quei contenuti che, durante il processo, scivolano dentro e fuori dalla scena, che si presentano con forza e poi si rendono inafferrabili. Di non abbandonare del tutto quegli immaginari incontenibili che non si lasciano addomesticare, trasudano sempre verso il fuori della regola. E dalla necessità di non uniformare la scena contemporanea a codici e convenzioni, ma restituirla nell’ampiezza del processo creativo, nello spostamento sostanziale di un punto di vista, sull’arte e sulla sua funzione >>.
Avevo bisogno di compagni di viaggio, di complici. Vivo una ferita, una frattura – è l’unico modo in cui riesco a relazionarmi con il nostro, con il mio tempo – e non posso fare altro che accogliere coloro che riconoscono la medesima ferita. Per abitarla insieme.
Ho voluto poi accostare a loro le tre produzioni che abbiamo realizzato al Teatro del Lido con Sonenalè, Enea Tomei e Dehors Audela per tenere viva e in evidenza la presenza attiva dei cittadini e perché mi sono sorpresa della felicità delle loro intuizioni e ho voluto dare ai loro lavori ulteriore vita.
Che tipo di risposta ha avuto TDV12 da parte del pubblico?
In sette giorni ho visto lo sguardo cambiare. Gli occhi di alcuni spettatori, ma anche di alcuni critici e teorici che hanno attraversato il progetto, sono stati abitati da una bella e nuova luce.
Ma in un progetto così complesso il tempo è il primo alleato. La lunghissima gestazione e il tempo di restituzione di tre mesi – dal 17 settembre al 19 dicembre – non corrispondono al passo, non sono la giusta partitura. Solo il ritmo è giusto. Servirebbe qualche anno di sperimentazione continuativa, non la straordinarietà di un tempo dilatato ma comunque limitato. Allora, con sulle spalle qualche anno di sperimentazione, potrei fare un bilancio.
E da parte della critica? Secondo te, esiste oggi una critica capace di mettersi all’ascolto di “nuove progettualità” e di restituirle con rigore ed efficacia nel rispetto dei tempi?
Domanda molto scivolosa.
Alessandro Pontremoli nel suo ultimo libro Danza 2.0 afferma: <<Non tutta la critica ha saputo adeguare i propri strumenti di lettura e il proprio sguardo alla trasformazione epocale del nuovo millennio>> (6).
Una pagina – e in realtà un volume – che mi ha fatto molto riflettere.
Credo che tutti noi abbiamo costruito i nostri strumenti di lettura, di analisi e di conseguenza progettuali, sulle opere del ‘900. E non credo che semplicemente vadano aggiornati – come i programmi del computer – ma che negli ultimi quindici anni ci stanno chiedendo una totale revisione. Dobbiamo avere tutti il coraggio di abbandonare il territorio del consenso al suo destino e di riappropriarci del nostro specifico territorio: quello del dibattito, prima di tutto interno e poi con l’esterno.
Credo comunque che qualcosa sia successo in questi mesi. La presenza soprattutto di studiosi e teorici, di critici che sono in realtà magnifici intellettuali, l’interesse di tantissimi giovani osservatori critici mi hanno confermato che la qualità della relazione deve essere cercata anche con chi si pone nel ruolo di osservatore. Inoltre la partecipazione di artisti e osservatori a Porta un pensiero, grazie alla cadenza quotidiana di un tempo dedicato all’incontro e allo scambio, ha costruito, giorno dopo giorno, uno spazio di elaborazione condivisa. L’esperienza mi fa pensare che una strada è già aperta e che abbiamo intrapreso un cammino.
Note
1) E. Fischer-Lichte, L’estetica del performativo, Carocci editore, Roma, 2016.
2) C. Diano, Forma ed evento, Neri Pozza Editore, Milano, 1967.
3) Aristotele, Etica Nicomachea, II, 7, 1107a 33 – b 4. <<Riguardo dunque alle paure e agli ardimenti la via di mezzo è il coraggio: e tra chi erra per eccesso, colui che eccede nell’assenza di timore non ha nome (molti di questi vizi non hanno nome) colui che eccede per ardimento è temerario, colui che eccede nell’aver paura o è deficiente nell’ardire è vigliacco>>.
4) Lo sviluppo della teoria sul piano è presente in J. Allan, The Philosophy of Aristotle, Oxford University Press, 1970.
5) M. de Certeau, L’invenzione del quotidiano, Edizioni Lavoro, Roma, 2012 (nuova edizione).
6) A. Pontremoli, Danza 2.0. Paesaggi coreografici del nuovo millennio, Editori Laterza, Bari-Roma, 2018, p. 24.