Reduce dal Piccolo Teatro Studio Melato di Milano, dove il 7 gennaio si è tenuta la cerimonia dei Premi Ubu 2018, Mimmo Borrelli fa ritorno nella sua Napoli anche questa volta da vincitore, dopo aver ricevuto lo scorso 17 dicembre il Premio ANCT della critica. Proprio in questa occasione, l’autore, attore e regista napoletano che ritirava il premio nella Sala Squarzina del Teatro Argentina di Roma aveva detto, in modo provocatorio: <<Un altro po’ e ho più premi che repliche>>, affermazione che dovrebbe portare a riflettere su quanto davvero i premi della critica siano d’aiuto alla distribuzione di uno spettacolo portentoso, maestoso, come La cupa, prodotto dal Teatro Stabile di Napoli – Teatro Nazionale, e da Borrelli scritto, diretto e interpretato insieme ad altri dodici attori.
Due, comunque, sono stati i riconoscimenti a lui assegnati, premio al Miglior testo italiano e alla Miglior regia, durante la serata condotta da Graziano Graziani e Federica Fracassi, trasmessa in diretta sui Rai Radio3 e seguita anche quest’anno sui social network, in particolare su Twitter, dove i due hashtag associati all’evento – #ubu41 e #premiubu2018 – si sono posizionati entrambi fra i trending topic.
Cosa ci dicono questi premi e il successo ampiamente riconosciuto a Mimmo Borrelli nel 2018?
Ci confermano che il 2018 è stato, anche per il teatro, un anno di “retromania”, per usare un’espressione centrale in un articolo uscito a proposito della danza contemporanea su queste stesse pagine, di Fabio Acca, che citava a sua volta il critico musicale Simon Reynolds. A ben vedere, infatti, quella di Mimmo Borrelli è un’arte legata a una modalità di fare teatro che non scavalca la soglia del nuovo millennio, imperniata sulla grammatica dell’attore e del testo. Utilizza miti, topoi, archetipi di una terra piena di cultura e di storia, di cui Borrelli possiede una conoscenza profonda. Non gli è avulso neppure il filtro di un certo sentimentalismo: Sanghenapule, Napucalisse, sono alcuni dei titoli dei suoi spettacoli che si fondono con il nome della città dai “mille colori” – per dirla à la Pino Daniele – e le altrettante, radicate difficoltà. Tuttavia, accanto all’approccio quasi antropologico, “retromane”, che Borrelli coltiva verso la materia letteraria, sonora e fisica da lui prodotta in scena, c’è che tutto l’immaginario trattato si nutre di una tendenza appassionata a rielaborare la tradizione e quegli stessi miti secondo piani di lettura contemporanei.
Esempio lampante di questa capacità demiurgica che fa convolare a nozze antico e contemporaneo è Napucalisse, portato sul palco del Ridotto del Teatro Verdi di Padova il 15 dicembre, nell’ambito del Premio Rete Critica 2018: anche qui, infatti, Borrelli è arrivato finalista per la categoria “Spettacolo/Compagnia”, mentre ha vinto Il giardino dei ciliegi. Trent’anni in comodato d’uso di Kepler-452 / ERT, sbaragliando anche l’altro – a posteriori premiato Miglior spettacolo ai più ambiti Premi Ubu – Overload dei fiorentini Sotterraneo.
Napucalisse, crasi sofisticata tra “Napoli” e “Apocalisse” la cui phoné in italiano si traduce con “un’apocalisse”, è il racconto di un racconto, consegnato all’autore da un vecchietto di Somma Vesuviana. È ambientato sul Vesuvio, l’amato e odiato vulcano che ha reso celebre in tutto il mondo il volto del capoluogo campano, che, leggenda metropolitana vuole, sia il solco lasciato dallo sprofondamento di Lucifero, l’angelo cacciato da Dio e scaraventato nelle viscere della terra. Nella visione di Borrelli, l’attività vulcanica, di cui le ultime battute del 2018 hanno fatto parlare in termini non poco inquietanti attraverso il sisma provocato dall’Etna, reca con sé, oltre alle più temibili conseguenze, anche aspetti positivi: la capacità di fertilizzazione, e quindi di procreazione, della terra, madre e ventre che accoglie, da cui tutto fiorisce e ritorna. Seguendo la traccia di questo ”doppio” che da sempre accompagna il teatro, Borrelli immagina che, proprio sul Vesuvio, Pulcinella, l’icona partenopea della Commedia dell’Arte, un po’ “guappo di cartone” con la croce al collo e un po’ spiritello alato, provi a dialogare con Dio sui vizi e le contraddizioni della città di Napoli. Dio, però, la cui figura confluisce in modo panteistico dentro quella del Vesuvio stesso, sembra emotivamente assente. Se ne sta in silenzio, forse perché rassegnato persino lui, e privo di adeguate risposte. La voce di Borrelli, così, si offre come monologo, preghiera; poesia e canto in cui la figura dell’anafora diventa predominante nella costruzione e nel ritmo della performance: <<Napoli>> introduce e accompagna ogni verso, tra le parole che ne qualificano i tratti. Il ritratto sonoro della città è aspro e vibrante. Stratificato, potente, nelle sue metafore: dai clan all’immondizia, dalle speculazioni edilizie agli omicidi dolosi. Sgranati come un rosario, i versi di Borrelli accarezzano le corde più intime dello spettatore come la lava densa e incandescente che scivola lungo le pendici del vulcano. Il corpo stesso dell’attore è magma: esplosivo, dirompente, rovente. E senza maschera. Eppure, anche in questa versione alienata e scomposta che pulsa di luce contemporanea, Borrelli s’imprime, dopo il grande Massimo Troisi, come l’ultimo Pulcinella, il fool partenopeo che, denunciando il falso e la grettitudine umana, meriterebbe di essere sempre ascoltato. Ricorda in parte, a chi sta scrivendo, la verve del giovane autore e attore Alessandro Blasioli, tra i più interessanti narratori della scena italiana Under 30; abruzzese che, nel suo spettacolo – anche questo consacrato da numerosi premi – Questa è casa mia, prende a prestito le movenze dei Comici dell’Arte per denunciare le fragilità dell’Abruzzo martoriato dal sisma del 2009, usando immagini e musiche tratte dalla cultura religiosa e folcloristica dei luoghi da cui proviene, spesso affossati dalle loro stesse superstizioni. Anche in Napucalisse di Borrelli aleggia l’elemento superstizioso, che lo stesso Pulcinella incarna nei confronti di un Dio che da lassù, alla fine, si rivelerà forse più omertoso, onnisciente e complice che non remissivo verso i peccati commessi dagli esseri umani. Come s’intuisce velatamente, dall’ultima preghiera che Pulcinella rivolge a Dio in modo più diretto: un <<a dio>> che per Dio è un <<arrivederci>>; al quale l’impertinente spiritello partenopeo, nella sua “sfaccimma”, può soltanto rispondere con uno sfrontato <<Speramm’ che no>>.