Avevano promesso un viaggio nella città color smeraldo di Frank Baum. Per «ripensare l’universo al di là dei rapporti di dominio e di sopraffazione». Per «mettere in discussione l’infertile contrapposizione tra natura e cultura e ritessere i legami che uniscono il corpo alla terra» (dalle note programmatiche di Ricci/Forte). Per trovare una immagine sintetica, hanno mandato in primo piano, come manifesto, il volto di una donna solcata dalle rughe del tempo, “bucata” però dalla luminescenza quasi irreale dell’occhio. Ma cosa ha significato camminare realmente tra i sentieri della Biennale Teatro? Quale tonalità di verde sono emerse dal tessuto spettacolare? Apparentemente, per le strade veneziane non giravano né maghi di Oz né boscaioli di latta. Di Dorothy, invece, se ne sono viste diverse. Celate tra un montaggio e uno smontaggio. Svegliate dai taccuini d’appunti che i tanti giovani presenti al festival facevano luccicare in penombra, durante la visione degli spettacoli. Rinvigorite dalla luce del debutto, dopo tante notti e tanti giorni di lavoro duro, il lavoro dell’immaginario. Tra un viaggio mentale e l’altro, alla fine ciascuno di noi ha potuto ricostruire la propria Emerald City, la mappa dei “doni di Dio” (etimologicamente, Dorothy, Dorothea, associa la parola Doron, dono, con Theos, dio), i piccoli tesori da riportare in valigia, ben sigillati.
Nella mia valigia, sono finiti quattro titoli: La terra di Nod (Het Land Nod) di FC Bergman, We Who Lived Our Lives Over di Mattias Andersson, On dying (Versuch Uber das Sterben) e Hamlet di Boris Nikitin. Spettacoli che Stefano Ricci e Gianni Forte, direttori artistici della Biennale Teatro, hanno portato a Venezia come primizie nazionali. Dettaglio che a volte riflette un’ansia da prestazione (la novità a tutti i costi!), ma che in questo caso assicura lo stupore del primo sguardo, il cammino epifanico del riconoscimento.
Distruzione e catarsi
Tutti e quattro i testi spettacolari ci hanno messo seriamente di fronte allo statuto del “reale”, indagato senza accomodamenti, anche a colpi di accetta, quando necessario. A cominciare dallo spettacolo dei fiamminghi FC Bergman, ai quali quest’anno è stato assegnato il Leone d’Argento, che hanno ricostruito, in uno spazio sconfinato d’archeologia industriale, a Marghera, la sala Rubens del Museo delle Belle Arti di Anversa. Come hanno raccontato gli stessi artisti, l’ispirazione del lavoro si deve a una visita nel momento in cui la galleria veniva restaurata (nel 2015). È stata dunque la visione di quel gigantesco scheletro disabitato e silente a fare da cassa di risonanza. Dopo aver chiesto, inutilmente, di usare proprio la galleria reale per la gestazione della loro opera e di fronte al rifiuto del museo, i giovani belgi sono riusciti nell’ardua impresa di portare dalla loro parte un affollato numero di produttori disposti a finanziare la loro visione incendiaria.
Dopo una prima parte dominata dallo spaesamento (platea e palcoscenico avvolti da un’unica parete che ricrea le esatte misure della galleria di Anversa) e da movimenti minimali, più vicini al mondo chapliniano (anche nella sua variante più recente, rappresentata da James Thierrèe) e all’immaginario di Christoph Marthaler, lo spettatore comprende che sta per abbattersi su tutti noi una tempesta. Un uomo si denuda e resta in un angolo. Un impiegato del museo cerca disperatamente di prendere le misure del grande quadro di Rubens (La crocifissione) riprodotto, anche quello a dimensioni reali, su una parete della galleria, finendo con il mettere se stesso e il museo in pericolo. Le luci si spengono pian piano, lasciando parlare i corpi dei performer, sempre più laceri, soli, feriti. La galleria diventa, per i dannati della terra, un luogo in cui trovare riparo. Ma non è che un passaggio, una breve tregua. Una carica esplosiva fa saltare il muro. Le pareti cominciano a sbriciolarsi. Tutto crolla, nell’impatto con una forza bestiale. Terremoto, guerra, tempesta perfetta? La galleria d’arte diventa ora la Terra di Nod, quel lembo del paradiso terrestre in cui Caino fu esiliato da Dio dopo aver ucciso Abele. Il Cristo crocifisso ha assistito alla distruzione del mondo e viene deposto, allontanato. Intorno non c’è che cenere, distruzione. Finché dalla parete in cui era appeso il quadro di Rubens non si forma una immagine diafana, il fantasma del corpo di Cristo: è il vento gelido del sacro che dona al terrore una possibilità di catarsi.
Dire sì alla vita
Di tutt’altra natura l’indagine scenica del drammaturgo e regista svedese Mattias Andersson, attualmente direttore artistico del Royal Dramatic Theatre di Stoccolma, la vera rivelazione di questa Biennale Teatro. Disposti in uno spazio ampio e luminoso che all’occorrenza poteva essere diviso come se in mezzo ci fosse uno specchio (gli spettatori seduti su entrambi i lati del palcoscenico centrale), gli strepitosi attori della compagnia di Andersson, donne e uomini di età e corpi tutti diversi accomunati dalla sottile capacità di empatia e attenzione scenica, hanno assunto le identità di altre donne e altri uomini che oggi vivono in Svezia.
A 137 persone Andersson ha rivolto la stessa domanda: «Cosa faresti di diverso se potessi rivivere la tua vita?».
Una domanda semplice, diretta. Le risposte, che sono state poi montate in una drammaturgia limpida, sono diventate lo stesso oggetto di rappresentazione. La materia è sensibile, ma può anche diventare innocua. Dipende dalla profondità non soltanto di chi parla, ma anche di chi ascolta e poi ricuce in tessitura drammaturgica. Ecco, in questo caso la composizione ha assunto una catastrofica bellezza, così intensa e precisa da impedire ogni possibile distrazione. Potendo rivivere la vita una seconda volta, c’è chi avrebbe voluto suonare uno strumento fin da bambino, oppure insistere per diventare una ballerina. Imparare il francese al posto del tedesco è un orizzonte apparentemente sereno. La tessitura si increspa e il dramma si infittisce nel momento in cui ascoltiamo la storia di chi crede di non avere avuto coraggio, o di chi è stato ferito dalla mancanza di autostima. La tragedia entra in campo senza preavviso, senza nessun particolare effetto, quando una ragazzina parla attraverso il suo avatar scenico di una tremenda faida, nata quasi per un nonnulla: una canna fumata per gioco, le famiglie che si accaniscono, come moderni Capuleti e Montecchi, un’amica quindicenne che tradisce l’altra, e infine il corpo di un ragazzo pugnalato e lasciato morire per strada. «Non sarei mai diventata amica della mia migliore amica» dice la ragazza. È un momento di puro terrore esistenziale, che Andersson e i suoi sofisticati interpreti decidono di non usare come finale. La musica dei vivi che avrebbero voluto essere ancora più vivi, forse solo un po’ più felici, riprende a suonare di fronte a noi, accanto a noi. Con le storie piccole e grandi di passione umana: una partitura intrisa della realtà del mondo, scritta in modo che l’io autoriale possa disfarsi di sé stesso, mentre lo spettatore conquista accesso illimitato al suo libero pensatoio. Un uomo che ha fatto del male dice di non essere cattivo. In questa stessa vita ha cercato di rinascere e di fare un’opera di bene. Soffre per il dolore che ha provocato. È pentito. Le parole di Nietzsche scorrono in sovrimpressione: «Questa vita, come ora tu la vivi e l’hai vissuta, dovrai viverla ancora una volta e ancora innumerevoli volte». Sul nastro del tempo che eternamente ritorna, camminano i fantasmi delle donne degli uomini che siamo stati.
Abiteremmo ancora quei corpi se potessimo rivivere un’altra volta? O salveremmo almeno l’anima? O pure quella, alla fine, vorremmo vederla sparire, bruciare? Nessuno afferma di voler morire, di non voler rinascere. Siamo in pieno esistenzialismo, ma senza nessun pennarello rosso a sottolineare il compiacimento del gesto artistico. Al contrario. Queste storie sono le nostre e gli specchi si moltiplicano. Sono specchi immaginari, prodotti solo dalle parole e dalla recitazione. Tutta la faccenda è così seria da lasciarci la sensazione che sì, nonostante tutto, come Molly Bloom, questo sì alla vita va detto, non una, non due, ma mille volte. E se la vita va onorata, allora non ci resta che viverla nella verità, anche a costo di non piacere a nessuno, di non essere amati.
La linea del padre
E veniamo, infine, al terzo autore di questa nostra personale Emerald City. Si chiama Boris Nikitin. Discendente di immigrati slovacchi, ucraini e francesi, è nato a Basilea nel 1979. Alla Biennale Teatro ha portato due opere, Hamlet e On dying. Il secondo monologo, che è stato mostrato prima dell’altro, è stato scritto mentre Nikitin stava preparando la sua originale versione dell’Amleto di Shakespeare, ma oggi suona come un preludio, un accompagnamento. “Accompagnamento” è la parola esatta. Ancora più giusta di “cura”. Proprio nel 2016, durante la preparazione dell’Hamlet, Nikitin si è trovato nel pieno di una tragedia familiare. Il proprio padre, un uomo pieno di vita, si ammala gravemente. Chiede la morte assistita. Se ne va.
Nikitin scrive On dying, magnifico testo letterario e teatrale che sceglie di leggere senza mediazione attoriale. Non lo recita, lo legge, per non creare nessuna interferenza spettacolare, per ribadire che la sua è una storia privata. Ma proprio per questo il suo gesto risulta straordinariamente autentico. Sono due volti di una stessa predisposizione alla verità. Andersson lascia parlare 137 persone e i suoi attori. Non ci dice come la pensa lui sulla seconda possibilità di vita. Nikitin invece dice: questa è la mia storia. Entrambi, con strade diverse, ci lasciano avvertire la sincerità dell’indagine. Per questo diventano universali. Come dichiara lo stesso titolo del preludio, On dying ci parla del morire: «Eravamo chinati su di lui come in un quadro olandese e gli tenevamo la mano. Non reagiva. Poi è arrivata l’infermiera, ha immerso un batuffolo di cotone in un po’ di acqua e gli ha pulito le labbra. Ha fatto un paio di movimenti incomprensibili. Poi è morto. Vedere come il suo corpo ha fatto tutto da solo, come è stato capace di farlo mi ha colpito… Noto ora come il mio cervello è impegnato a sincronizzare l’immagine di questo corpo senza vita con la memoria di una persona viva che era stata lucida fino a un attimo prima. Ma non funziona».
Nikitin ci racconta l’inganno del “reale” e il disperato tentativo di rendere “reale”, appunto, la vita stessa. Come fare? Collega l’epifania del padre con il desiderio di dire al mondo ciò che si è, rivelando, nel suo caso, la sua omosessualità. La verità, ancora una volta, come estrema e unica forma di realizzazione. Non realizzazione dell’io, ma accordo con il sé: per renderlo reale, possibile, per consentirgli il respiro, anche quando intorno si muore. Arriva poi Hamlet, affidato a un performer straniante, Julia*n Meding, musicista e attore, che si presenta subito non tanto come un corpo maschile-femminile, tanto come un’anima ferita, sempre sul punto di cadere e rompersi. Qui Hamlet è un figlio devastato dalla morte di un padre, un’anima inquieta e lacera che si trova per strada a suonare. Un orfano di padre che va a visitare gli ospizi. Un musicista disperato che ha in odio il suo stesso corpo. L’opera si assesta su tutto quello che precede la tragedia, molto prima della carneficina: l’amore di un figlio verso un padre che muore. I due testi sono il prolungamento l’uno dell’altro. L’autobiografia rafforza la linea del personaggio e lo lega al destino del padre. C’è un momento in cui Hamlet spiega, a modo suo, come la ferita originaria possa portare a due scelte diverse: la violenza contro gli altri o la violenza contro se stessi. L’Hamlet di Meding-Nikitin non fa male a nessuno. Comincia con il tagliarsi i capelli e le sopracciglia. In tutti i modi, vorrebbe disfarsi di sé. L’Amleto di Shakesperare è anche questo. Una creatura sofferente, antipatica, non sociale, solitaria. Nel testo classico, arriva ad uccidere. Nell’opera punk di Nikitin, arretra e cade. Si rialza e cade ancora. Vacilla. Dichiara il proprio dolore. Chiede aiuto. Non mente mai. La vita gli è insopportabile. Ma non riesce a uccidere. E neanche a morire. È quello che è.