Per una non patita di fantascienza come la sottoscritta, la visione di Consigli per sopravvivere in natura, spettacolo presentato al Teatro India da lacasadargilla all’interno della rassegna IF/INVASIONI (dal) FUTURO_DARK AGES, è stata senz’altro un’occasione.
Niente o poco conoscevo di tre delle quattro autrici di altrettanti racconti, qualcosa di più di Margaret Atwood, per via dell’ormai celeberrimo Il racconto dell’ancella.
Invece apprendo che Octavia Butler e Ursula Le Guin sono state non soltanto “grandi madri della fantascienza”, ma scrittrici e attiviste impegnate su più fronti, dal femminismo al pacifismo. E scopro che Alice Bradley Sheldon ha firmato la sua quasi intera produzione con pseudonimo maschile – James Tiptree Jr. -, prendendo in braccio lettori e critici («Avevo la sensazione che un uomo sarebbe passato inosservato. Ho avuto anche troppe esperienze nella mia vita dovute al fatto di essere la prima donna a fare qualche dannato lavoro»).
Suo è Lo psicologo che non voleva fare brutte cose ai topolini con cui inizia questo “racconto di racconti” della durata di quasi due ore, in cui si succedono quattro racconti che ci dicono essere “introvabili” adattati da Roberto Scarpetti e restituiti da un’ottima interpretazione al leggìo da parte di Lorenzo Frediani, Arianna Gaudio, Fortunato Leccese, Anna Mallamaci, Paolo Minnielli, Alice Palazzi, Stefano Scialanga, Roberta Zanardo, diretti da Lisa Ferlazzo Natoli e Alessandro Ferroni.
In primo piano, come da titolo, il conflitto più che mai attuale, tra lo spregiudicato rigore dell’analista di laboratorio che ha sempre presente che «questo è un laboratorio, non uno zoo» e le remore molto più umane di uno scienziato pieno di scrupoli (buona la scelta di renderlo persino interdetto, imbarazzato, quasi balbuziente) che si interroga e ci interroga sull’utilità o meno di ripetere esperimenti già fatti. Una questione che ha ben poco di fantascientifico e che interpella il nostro presente, ora provando a scardinare schieramenti preventivi, ora ben consapevole che certi schieramenti sono inossidabili e la domanda è soltanto retorica. Resta la verità incandescente di una questione attualissima e ben vengano le occasioni per prendere parte.
Quello che resta, dell’intera serata, non soltanto dal primo racconto, è una sorta di perturbante sensazione di appartenenza a qualcosa che quotidianamente non ci accompagna, accantonato, rinviato o messo a tacere. Quanto c’è di fantascientifico, per esempio, nell’idea che esista un «serbatoio del dolore che aspetti di essere riempito?». Quanto ci inquieta, ci infastidisce, ci lavora dentro la domanda delle domande: quanto è sadico l’uomo, quanto siamo sadici noi?
Un balzo all’indietro e dagli esperimenti futuristi sui topi, ci troviamo ingarbugliati nell’enigma della Sfinge. Chi siamo noi e perché ci portiamo addosso un serbatoio di dolore da riempire in qualche modo? Siamo ben poca cosa, parrebbe, se tanto temiamo la rivolta dei topi guidati da un re, il loro, non più nostro, pifferaio di Hamelin?
Quanto la fantascienza distopica sia sempre meno “fanta” e sempre meno distopica, quanto sia anzi intrisa di noi e del nostro tempo presente, lo sperimentiamo dalle nostre pulsioni, dalle nostre paure, dal nostro rapporto malato con la natura e qualunque altro essere si distingua da noi: compreso un nostro simile ipersensibile che non si adegua, tacciato di autismo, allontanato dal gruppo. Siamo al racconto di Ursula Le Guin, Più vasto degli imperi e più lento, in cui emerge in filigrana la nostalgia per il buon selvaggio, l’origine, l’interezza della natura e del mondo prima di quella scissione chiamata cultura, che ci avrebbe portato fin qui. A programmare un lunghissimo viaggio interstellare, compressi nello spazio ristretto di un’astronave, tutti insieme, a patto però che non si manifesti il diverso e, soprattutto, che non crei disturbo. Mentre fuori di lì cerca di resistere, invano e sempre più esposta alla contaminazione, «l’immane vitalità del mondo vegetale», connesso in un’unica rete.
Lo spazio di rapporto possibile con l’alterità, il non conosciuto, l’imprevedibile, viene affrontato in modo chiaramente paradossale da Octavia Butler in Figlio di sangue, racconto di formazione in cui al centro c’è un uomo non privo di scrupoli e buoni sentimenti che resta incinto di un’aliena.
Palla di pelo di Margaret Atwood è invece una storia di somatizzazione che deborda, estendendosi alle relazioni umane: un’ossessione misteriosa prende la forma di un’enorme cisti villosa grande come una noce di cocco e diventa performativa.
Sappiamo bene quanto le ossessioni siano somatizzabili, quanto le somatizzazioni possano essere ossessive, quanto il nostro soma sia profondamente connesso con la nostra psiche, con i suoi demoni e le sue grazie.
I quattro racconti sono stati trattati in un coerente flusso verbale reso da voci diverse e ben accordate, in dialogo con una strutturata drammaturgia del suono (Gianluca Ruggeri) che alterna la micro-frammentazione di brani dei Tangerine Dream, padri della musica elettronica, a composizioni originali.
La scena sfrutta bene la profondità del palcoscenico di India e gioca su più piani, lasciando intravedere, oltre il proscenio destinato ai leggii, scene accennate, tavoli apparecchiati di cristalli e trasparenze, individui che si aggirano con passo felpato che raramente comunicano e interagiscono.
A suggerire una pur fragile suddivisione di ambienti, una membrana semitrasparente (velatino?) su cui vengono proiettate immagini perlopiù astratte evocate dai racconti.
Consigli per sopravvivere in natura
a cura di lacasadargilla
regia Lisa Ferlazzo Natoli e Alessandro Ferroni
adattamenti Roberto Scarpetti
drammaturgia musicale Gianluca Ruggeri
ambienti visivi Maddalena Parise
costumi Camilla Carè
drammaturgia delle luci Omar Scala
disegno sonoro Pasquale Citera
con Lorenzo Frediani, Arianna Gaudio, Fortunato Leccese, Anna Mallamaci, Paolo Minnielli,
Alice Palazzi, Stefano Scialanga, Roberta Zanardo
chitarra elettrica Fabio Perciballi, el. devices Alessandro Ferroni
aiuto regia e coordinamento Matteo Finamore, Martina Massaro, Caterina Piotti
Francesco Cecchi Aglietti.
Lo spettacolo è stato presentato in prima nazionale il 31 agosto e il 1° settembre 2023 al Teatro India di Roma.