C’è quel suono d’organo in una strada del centro di Roma o Venezia che ti richiama nella chiesa umida a sedere in punta di panca nella navata barocca, invasa dal profluvio delle note, in contemplazione dell’aria formicolante di pulviscolo in quieta ascensione, accesa dai raggi del tramonto, chiedendoti con le mani sulle ginocchia, le spalle strizzate e le sopracciglia aggrottate, se non sia, tutto ciò, una chiamata di Dio. C’è il raggio diretto dalla divinità verso di te, l’elevazione individuale, la verità che ti porge, più che il lungo indice nervoso, la dolce mano virile. Non importa il salmodiare di qualcuno che si trastulla nel rosario, né la donna che tocca con le ginocchia il marmo, il volto deturpato dall’enormità dei due occhi umidi, o i turisti entrati per sonnecchiare su Tripadvisor. È la chiamata che ti sceglie nel mazzo, e se rifiuti è un atto di volontà, per quanto negativo, di cui continui a prenderti la responsabilità come persona.
C’è questo – e poi c’è Dream di Alessandro Sciarroni, che ne è l’opposto. Si tratta di una performance di cinque ore nello spazio dell’Acquario Romano, ora Casa dell’Architettura (non è difficile trovarne on line la storia), in programma per Short Theatre, con la direzione di Piersandra Di Matteo.
Perché sia l’opposto della chiamata della divinità è presto detto: nonostante, come si vedrà, ugualmente sfondi non solo le quattro pareti della rappresentazione ma anche quelle di un luogo deputato, non è una chiamata, è una proposta. Non ci sono effetti speciali che puntino su una qualche dirompente emotività, né divini né umani; quello a cui si è esposti non è un punto “oltre”, ma un paesaggio “tra”. Né è disposto secondo la verticalità dell’ascensione, ma come una distesa orizzontale di sguardi silenziosi, una pianura, anzi, di sguardi tutti amici – possibile, uno si chiede, che tutto il mondo che conosco sia qui con me, ora? Con quali strumenti quella proposta sia condotta è veramente arduo a dirsi, perché sembrerebbe che non ve ne sia nessuno, in particolare, di decisivo, e nessuno sicuramente di notevole di per sé. Eccoli.
Un risaputo pianoforte verticale, quasi nudo, è al centro della sala, a metà esatta dei due fuochi dell’ellisse che ne costituisce la pianta, fuochi tenuti letteralmente accesi da due alti proiettori. Sei performer in nero (Marta Ciappina, Matteo Ramponi, Elena Giannotti, Valerio Sirna, Edoardo Mozzanega, Pere Jou) con stivaletti pure neri di gomma o galosce da cavallerizzi si aggirano senza reclamare l’attenzione, anzi qualcuno sembra nascondersi. Ciascuno per suo conto, con saltuari unisoni, toccano degli oggetti non solo invisibili, fatti d’aria, ma che non hanno il loro corrispettivo nella realtà tangibile, oggetti astratti. Lentamente ora uno ora l’altro si avvicina al pubblico, libero di muoversi o di stare, nell’ipotesi di un breve contatto, con una qualità del rapporto lieve e insieme affilatissima. Intanto Bach, Schubert, Satie, forse Händel, meditati, slentati, rigirati dalle dita di Davide Finotti si alternano a brevi momenti di silenzio.
Ogni tanto la porta si apre, qualcuno entra e si unisce a noi, qualcuno torna invece nel mondo. Un solo appuntamento fisso, probabilmente ogni ora, ricorda a tutti che il tempo lineare che costituisce una nostra categoria e su cui abbiamo dato forma alle nostre esperienze quotidiane continua a scorrere: un cellulare poggiato sul pianoforte squilla, i performer interrompono la loro azione, si avvicinano al centro della sala e, diretti da Finotti intonano il coro a bocca chiusa della Butterfly. Le luci cambiano, proprio come nell’opera di Puccini, dove il coro attende l’alba con la sfinita fanciulla. Ed è, forse, un’alba dopo l’altra anche questo succedersi di giornate, ogni volta diverse ma sempre segnate dalla stessa atmosfera. I performer si separano, ciascuno mantenendo la propria nota in bocca, per le periferie dello spazio, disseminando quei suoni, tentando forse di contagiarne gli astanti.
Sono certo che da qualche parte, ma non riesco a ritrovare dove, Bruno Barilli scrivesse che quando il critico ricorre alla categoria del “mistero”, c’è puzza di incompetenza. Sia pure, ma non si saprebbe dire cosa d’altro lavori in questo Dream, ed è innegabile che qualcuno, assente all’esperienza, nutrirebbe dei dubbi sull’efficacia della scarna e poco segnata scelta degli strumenti comunicativi fin qui riportati.
Ma basterebbe pensare alla pratica della ripetizione (che porta a esiti di epifania dell’oggetto di natura duchampiana – è autodefinizione dello stesso Sciarroni), per rintracciare in essa il filo che innerva i gesti portati in scena dal coreografo, dotandoli della capacità di trasfigurarsi in altro rispetto a ciò che sono quando si trovano immersi nel loro contesto naturale. I danzatori di Schuhplatterl di Folk-S (2012), che ripetevano allo stremo le stesse movenze del ballo popolare bavarese e tirolese, riuscivano a ricordarci che nel particolare insistito è leggibile in controluce non solo l’universale ma l’Universo, tutto il possibile. E in Save the last dance for me (2019) il linguaggio convenzionale della polka chinata si caricava dell’intero vocabolario, potenzialmente infinito, dell’intesa fra due esseri, che due paia d’occhi innamorati bastano a recitare interamente, nel silenzio. In Dream la ripetizione per cinque ore non di un gesto o di una sequenza o di una convenzione, ma di una qualità del gesto, dello stare, la perseveranza della levità e dell’innocenza, il lievito sempre rinnovato dell’assenza “nella” presenza sono capaci di installarsi e permeare l’esistenza di un gruppo di persone che vi partecipano. Gruppo sempre mutevole per i continui ingressi eppure sempre, incredibilmente, concorde.
La pratica della ripetizione è dunque qui capace di suggerire non una filosofia o un pensiero, ma di istituire attraverso la presenza dei corpi una comunità, di farsi atto politico, inaudito perché attivato tramite una percezione priva di qualsiasi ricorso a un contenuto. Una stanza aliena si edifica dunque nell’ellisse dell’Acquario, che, se deve certamente qualcosa alle coordinate concettuali della Breathing Room di Salvo Lombardo (consulente alla drammaturgia per Dream), fa girare i suoi strumenti in un habitat pre-linguistico, con la violenza pacata di un sotterfugio inafferrabile. Sì, va bene: sapiente dosaggio di tempi, spazi, qualità del gesto, ma il tutto spruzzato di una misteriosa diavoleria (con buona pace di Barilli), una stregonesca pratica di comunicazione che tiene quasi sospeso leggerissimo su una sedia l’anziano critico della carta stampata, i colleghi del giro e gli sconosciuti, cinque giovanissime turiste giapponesi, forse anche tu, lettore. Gli amici, insomma.
Qui non vi è pubblico, il teatro di Sciarroni non mostra nulla, costruisce una comunità che vive nel tempo del suo svolgimento. Il «teatro di Sciarroni», ho appena scritto: mi è venuto da chiedermi se “teatro” fosse ancora la parola giusta. Brevissimo tentennamento – e, ben più che in quella chiesa barocca, sotto il potente proiettore di taglio del sole, con la fonica a palla (anche lì era Bach), la risposta che anche un ateniese avrebbe potuto dare dagli spalti della sua acropoli è: sì.
Dream
di Alessandro Sciarroni
con Marta Ciappina, Matteo Ramponi, Elena Giannotti, Valerio Sirna, Edoardo Mozzanega, Pere Jou
pianista Davide Finotti
consulenza drammaturgica Salvo Lombardo
paesaggio sonoro Aurora Bauzà & Pere Jou
costumi Ettore Lombardi
disegno luci e cura tecnica Valeria Foti
cura, consiglio e sviluppo Lisa Gilardino
amministrazione e produzione esecutiva Chiara Fava
relazioni stampa e comunicazione Pierpaolo Ferlaino
social media Giulia Traversi
produzione MARCHE TEATRO Teatro di Rilevante Interesse Culturale, Corpoceleste_C.C.00#, Dance Reflections by Van Cleef & Arpels, CENTQUATRE– PARIS, Festival D’Automne à Paris, Triennale Milano Teatro, CSS Teatro stabile di innovazione del FVG, Centrale Fies, Snaporazverein, Azienda Speciale Palaexpo – Mattatoio | ProgettoPrender-si Cura, La Contrada Teatro Stabile di Trieste.
con il sostegno di Dance Reflections by Van Cleef & Arpels.
Short Theatre, Acquario Romano, Roma, 12 settembre 2023.