Per cominciare una nota a margine. Andando a memoria, solo agli applausi de La trilogia della villeggiatura diretta da Toni Servillo, la compagnia tutta era uscita insieme. Nessuna gerarchia, nessuna chiamata o richiamata individuale, nessun occhio di bue sul mattatore. Un bell’effetto che si era notato. Poi senza farci troppo caso mi sono riabituata alle uscite all’italiana, secondo gloria, curriculum, nome di richiamo, a volte di grido, direttamente dal mainstream. Niente di terribile, per carità, ma la sorpresa di avere visto Isabelle Huppert uscire insieme ai suoi tre compagni di scena, per mano, semplicemente scambiandosi la posizione per salutare ognuno la fetta di pubblico di turno, destra e sinistra, mi ha fatto piacere.
Bravissimi attori, i tre, due attori e una giovane attrice, ma non star o nomi conosciuti ai più. Lei invece. Lei è Isabelle Huppert. Una gigantessa. Per lei, immagino, la corsa a questo Lo zoo di vetro che già un mese fa ha fatto registrare il tutto esaurito, vera chicca del cartellone di Romaeuropa Festival 2023, presentato al Teatro Argentina il 23 e 24 settembre per un totale di tre repliche.
La storia, rielaborazione di Tennessee Williams dal suo racconto Ritratto di una ragazza di vetro, è nota: numerosi sono gli allestimenti a cui abbiamo assistito, bella occasione per solide coppie di attrici cui Williams riserva spesso ruoli principali.
Qui c’è una madre, Amanda, preoccupata per le sorti dei figli; ci sono loro, i figli, insofferenti della preoccupazione della madre: Laura, zoppa e rassegnata, dedita ai suoi animaletti di vetro fragili quasi quanto lei; Tom, perseverante cinefilo finito a lavorare in un negozio di scarpe. E poi ci sono le assenze, che sono tante e radicate, pervasive ombre che incombono sulla vita di ciascuno e sulle loro relazioni.
Oltre a quella del padre e marito, infatti, chiara assenza tangibile, concreta, qui c’è tutto quello che manca per essere felici e grati alla vita. Manca l’autostima, soprattutto, dissimulata nell’infermità del corpo; manca il riconoscimento del talento o almeno di una vocazione, manca il coraggio di rivendicare un’identità che forse non coincide con quella manifesta; manca il passato, che si fa sentire come rimpianto inespresso, ordigno inesploso che non lascia tranquilli.
Su queste mancanze, ha lavorato il regista belga Ivo van Hove, e sulla dimensione onirica che è parte stessa della consegna dell’autore: il dramma si svolge come il lungo ricordo di Tom che racconta la vita di madre e sorella, alternata alla sua e alla sola irruzione di una figura maschile, reale sì, ma più ingannevole di qualunque illusione.
Jim, ovvero il compagno di scuola, l’amico mai dimenticato di Laura, le si para davanti come un miraggio, una strategia, forse un tranello messo a punto da Tom, con il benestare di Amanda, che spera di rimediare una sistemazione per la figlia. Ma proprio la ricomparsa di Jim non fa che ribadirne l’assenza, il suo essere altrove, l’inconsistenza di una reale possibilità di uscire dal guscio. La conferma è proprio quel ballo sfrenato in cui Laura, la zoppa, si lascia travolgere – un grande momento dello spettacolo- ma senza crederci, per un istante soltanto, il segno forte che un’altra vita è possibile, anche per lei, se solo volesse vederla e riconoscerla, fuori e oltre la campana di vetro entro cui si protegge.
Qual è, invece, lo scopo di Tom? La domanda è aperta e la regia di Van Hove non indica risposte: suggerisce, casomai, un’interiorità compressa di questo ragazzo e poeta incompreso che la semplice lettura non esplicita.
Perché Tom invita Jim a cena? Qual è, se c’è, il suo desiderio segreto? Vedere la sorella fiorire, risvegliarla da un torpore antico, liberarla da una solitudine immeritata della quale egli stesso non vede ragioni? Oppure intende semplicemente compiacere la madre e godersi l’amicizia di Jim alla faccia di entrambe, dei loro sogni e delle loro intenzioni? Certo la Laura che timidamente si muove di fronte a noi spettatori non è la ragazza senza età, goffa e impacciata, che abbiamo visto in allestimenti passati, affetta da evidente zoppia, scarpa con zeppa e gonna alla caviglia, ma una giovane donna, acerba sì ma di inesperienza e di scaltrezza, che si muove agile e lieve come una ragazzina divisa tra il suo mondo interiore, intatto e fragile come il cristallo e quello esterno, che inizia e finisce tra madre e fratello. Prima di essere squarciato da Jim, il ricordo, appunto, destinato a restare ricordo.
Ma è come se le parole che dicono di lei disdicessero i movimenti, contraddicessero la sua presenza in scena, che invece vibra di una vitalità fanciullesca, timida sì ma perché inconsapevole, frutto della ristrutturazione mnemonica di Tom. Certo che anche la scena finale fotografa un abbraccio tra fratello e sorella che lascia aperte diverse ipotesi. Compresa una complicità sotterranea tra i due, fatta di segreti, confidenze, forse persino licenze, a cui questa regia mi ha fatto pensare. Loro due da una parte, Amanda dall’altra, sola, tra sogni e ricordi, dedita a figli che non sa capire.
È chiaro che Tennessee Williams non è il trionfo dell’allegria, eppure qui si riesce persino a sorridere: sul serio, non solo con amarezza.
Grazie soprattutto all’acrobatica prestazione della Huppert, le ambizioni frustrate di Amanda, la sua bellezza che scalpita sotto una veste sottile e i capelli acconciati alla meglio, la sua energia, i suoi desideri febbrili ora dissimulati dalla devozione materna ora liberati nell’isteria del corpo, trovano momenti che non si dimenticano.
Huppert recita Amanda che a sua volta recita la disperazione di una madre logorroica che rimprovera l’una di non essere mai stata a scuola e l’altro di passare il suo tempo al cinema anche quando il cinema è chiuso; fa il verso ai professori dando vita a un’esilarante esternazione di un dialogo a tre, si strapazza a terra, gesticola come un clown e poi si irrigidisce per alcuni secondi come in un fermo immagine attraversato da drastici e risolutivi pensieri e poi riprende a marciare sui tacchi come una buffa casalinga in equilibrio precario, è frizzante o seduttiva al momento giusto o anche soltanto al momento opportuno e infine dà vita all’eterno conflitto (femminile?) tra l’allontanare da sé e il trattenere, in una memorabile scena di fine spettacolo, aggrappata alla gamba di Tom mentre lo insulta e intima di andarsene. Un cane rabbioso che non molla l’osso contro cui infierisce.
La chiave è proprio raccontare il lirismo di anime stanche, epicamente, con il distanziamento divertente e divertito di chi si osserva e sorveglia a ogni passo, a ogni battuta, a ogni intonazione, avvicinandosi e allontanandosi dal qui e ora del personaggio, guardato sì con tenerezza e complicità, ma anche con tanta disarmante ironia.
Lo spettacolo tutto è nel segno del migliore teatro di interpretazione e tutti gli attori servono bene la causa -bravissimo Cyril Gueï nel ruolo di Jim -.
La scena ospita un angolo cucina sulla sinistra e due aperture che indicano una scala e lo scrigno che custodisce lo zoo, ma tutto finisce per perdere i contorni fluendo in uno spazio indefinito e monocromatico, lo spazio del ricordo, appunto, in cui si riconoscono volti stilizzati sulle pareti, che sembrano riprodurre fondi di caffè.
Lo zoo di vetro
di Tennessee Williams
regia Ivo van Hove
con Isabelle Huppert, Justine Bachelet, Cyril Gueï, Antoine Reinartz
traduzione in francese Isabelle Famchon
drammaturgia Koen Tachelet
scenografia e luci Ian Versweyveld
costumi An D’huys
suono, musica George Dhauw
creazione e produzione Odéon – Théâtre De l’Europe
coproduzione Onassis Stegi – Athens, Comédie De Clermont-ferrand Scène Nationale, deSingel – Antwerpen, Barbican – London
Supportato da Le Cercle De L’odéon
© 1945, Renewed 1973, The University Of The South, “The Glass Menagerie”.
Published By Arrangement With The University Of The South, Sewanee, Tennessee.
The Author Is Represented By Renauld & Richardson, Info@paris-mcr, In French And European Countries In Agreement With The Casarotto Ramsay Agency Ltd, London.
Romaeuropa Festival, Teatro Argentina, Roma, 23 e 24 settembre 2023.