Roman Polański ci porta in un mondo mostruoso, in cui la realtà supera qualsiasi assurda surreale distorsione dell’umanità.
C’è chi è rimasto deluso nel vedere l’ultima fatica di Roman Polański, ma ciò significa non conoscerlo. Infatti, The Palace presenta un livello e una struttura diversi da tutti i film precedenti del grande regista polacco che, alla soglia dei novant’anni, ha deciso che potesse permettersi di scrivere una commedia vagamente trash in coppia del suo compatriota e amico di vecchia data, Jerzy Skolimowski.
Cinquantaquattro anni dopo la scrittura de Il coltello nell’acqua, Polański e Skolimowski si riuniscono ancora una volta, insieme alla sceneggiatrice Ewa Piaskowska, riprendendo una loro vecchia idea di ambientare una commedia grottesca in un hotel.
È il Capodanno del 1999 e si teme l’Armageddon secondo una profezia che prevede l’azzeramento informatico e quindi la cancellazione dei privilegi dei ricchi.
La storia è completante girata in un hotel alpino, a Gstaad, dove il regista è realmente stato in vacanza, rimanendo evidentemente colpito da un’umanità opulenta, superficiale e a tratti mostruosa. Inoltre, la Svizzera è quel territorio neutrale, perfetto per comunicare un’assenza di posizione e di un’identità’, dove poter organizzare un ultimo umano spettacolo ed esorcizzare le paure.
Tutti sembrano essere una deformazione della reale natura e gli interventi di chirurgia plastica definiscono l’estetica di tutti a partire dal protagonista, Mickey Rourke, il quale interpreta un milionario vecchio e incurante di tutto, anche di un figlio arrivato apposta dall’est europeo pur di conoscerlo.
Figure tutte grottesche, che alcuni hanno accostato alla commedia leggera, ma che noi associamo alle maschere e alla loro tragicità umana, la stessa di sempre, declinata attraverso fenomeni sociali annichilenti come quello del bisturi per sfuggire al tempo e alla propria umanità.
La volontà degli sceneggiatori è infatti quella di non creare nessun effetto di straniamento con i personaggi, ma al contrario uno stato di basica empatia per potersi immergere in un clima in cui godere dello stato di futilità e inutile edonismo.
La sfilata di mostri umani è una conseguenza anche del clima politico dell’epoca, post caduta del Muro, che vede affacciarsi con prepotenza le diseguaglianze sociali e la presenza distopica di governi basati su democrazie fragili.
Non a caso troviamo le dimissioni di Yeltsin e la successione di un agguerrito Putin al governo, che nell’hotel di lusso sarà sostenuto da una masnada di mafiosi ubriaconi con tanto di escort a seguito e ambasciatore russo corrotto e con valigie di soldi già pronti per pagare i servigi.
Troveremo solo personaggi che in modo grottesco cercheranno di sfuggire alla morte: la ricca marchesa (Fanny Ardant), che nutre il cagnolino con il caviale e si preoccupa che possa morire perché fa i bisogni sul letto, miliardari sposati con giovani matrone a cui regalano gioielli esagerati in cambio di una prestazione erotica o donne anziane che cercano di celare i cambiamenti fisici e sessuali.
Tutti sono legati dalla fuga del proprio essere, martirizzando una servitù pronta a soddisfare attraverso oggetti e gesti che non sono altro che dei rituali di esorcismo, inutili e di monito invece per coloro che “fortunatamente” o con giudizio non hanno vissuto esistenze così leggere.
Polański dona una lezione da vero maestro senza sembrare di esserlo con il gusto di colui che può alla sua età, e dopo tanta vita, trattare della morte e della distruzione attraverso il grottesco e la capacità di scuoterci.