Scomparso pochi mesi fa, il 13 giugno, lo scrittore statunitense Cormac McCarthy, dopo una lunga vita, ci ha regalato un ultimo suo gran libro: Stella Maris (edito in Italia da Einaudi, con la splendida traduzione di Maurizia Balmelli). Assieme al precedente capolavoro, Il passeggero, sempre uscito per Einaudi, McCarthy ha realizzato una diade letteraria nella quale Stella Maris, pur pubblicato dopo, dal punto di vista dell’intreccio rappresenta di fatto una sorta di flashback rispetto all’altra opera.
Se protagonista di Stella Maris è Alicia Western, il personaggio principale di Il passeggero è suo fratello Robert. Due personaggi inestricabilmente legati l’una all’altro, come viene raccontato in Stella Maris, ma senza che l’intreccio, molto semplice e asciutto, di questo testo implichi per il lettore la conoscenza dell’altro.
In effetti nell’opera di cui qui mi occupo non troviamo una catena di eventi, uno svolgersi della narrazione su tempi e luoghi che variano, in cui gli eventi si susseguono catturando la curiosità del lettore. Non troviamo le atmosfere tipiche dei romanzi di “frontiera” e di quelli distopici a cui lo scrittore ci aveva sorpreso e conquistato, da Non è un paese per vecchi a La strada (da cui le sceneggiature degli omonimi film che vennero realizzati).
Il plot di Stella Maris, ambientato nel 1972, nel Wisconsin, in una casa di cura «per pazienti psichiatrici medicalizzati» è semplicemente il susseguirsi di sette sedute terapeutiche che il coprotagonista dottor Robert Cohen vive assieme alla paziente Alicia Western. Costoro sono gli unici personaggi del romanzo, che di fatto formalmente è molto più simile a un dialogo di tipo drammaturgico, e i cui passaggi di natura diegetica sono frutto di brevi monologhi narrativi, soprattutto quelli di Alicia.
Quello che mi interessa e che penso valga la pena di sottolineare e proporre ai lettori e alle lettrici è l’intrinseca e profonda “teatralità” del testo. Naturalmente, in prospettiva ipotetica e teorica, mi auguro che presto due attori coraggiosi e di altissima preparazione, aiutati da un drammaturgo capace di snellire il testo rispettandone assolutamente lo spirito e anche il più possibile la lettera, portino sulla scena Stella Maris.
Non voglio in questa sede, se non per accenni, sottolineare i valori contenutistici del testo, di altissima qualità creativa e di pensiero, che comunque i lettori e le lettrici potranno verificare sui diversi contributi critici già presenti sul web e sulla stampa cartacea. Mi interessa piuttosto individuare nel testo tutti quegli elementi di costruzione del dialogo che possono trasformarsi da scrittura letteraria a testo per il teatro. Gioca a favore di tale prospettiva la scelta dell’autore (direi ben consapevole delle nuove modalità drammaturgiche del teatro occidentale e reso consapevole dalla scrittura delle sceneggiature cinematografiche) di non inserire elementi descrittivi dello spazio in cui si svolgono gli incontri dei due protagonisti: è un compito che di fatto andrebbe lasciato al regista, allo scenografo, al curatore delle luci. Ugualmente non vi sono indicazioni sul decoro scenico dei due personaggi: trucco, costumi, ecc., sappiamo che sono appannaggio dei costumisti.
Sul piano del discorso, delle battute a ping-pong di Alicia e del dottor Cohen, prive di didascalie di espressione, per lo più implicite e facilmente immaginabili, McCarthy lavora sui sottotesti di natura psicologica, molto frequenti dato lo status di personaggio mentalmente malato, qual è Alicia, seppur ricco di una originale genialità, a fronte di uno psichiatra (quasi personaggio “da spalla”) spesso sorpreso dalle uscite della paziente e quasi incapace di offrire soluzioni terapeutiche davvero efficaci.
Ancor più frequenti le “implicature conversazionali”, i sottointesi, che muovono il dialogo, lo rendono spesso “elettrico”, spesso sottilmente conflittuale. E a tal fine notevole è l’uso di determinate figure retoriche che nel dialogo teatrale la fanno da padrone. Mi riferisco innanzi tutto alla antitesi, e alla antifrasi, figure chiave dei rapporti conflittuali; alle negazioni dirette e a quelle non del tutto espresse (“reticenze”) specie da parte della protagonista Alicia. Frequenti le litoti, quando si tratta di alleggerire l’impostazione di un giudizio, di un’impressione, di un’accusa. In questo caso è più il medico a indirizzare il discorso non volendo e potendo offendere la paziente, e spesso evitando di entrare nelle pieghe di temi culturali e scientifici a cui non è in grado di riferirsi con cognizione di causa, al contrario di Alicia. Molto presente è la figura dell’apoftègma, col quale spesso Alicia si esprime con sentenziosità circa le sue visioni esistenziali e scientifiche (essendo una matematica di grande valore ma drammaticamente limitata dalle sue disgraziate vicende personali al punto di volersi morta piuttosto che abbandonare lo studio della topologia matematica). Frequente è una figura retorica (molto usata anche nei testi paradossali di Pirandello) e cioè l’aprosdòketon, con la quale, nella “danza” conversazionale dei due personaggi, ciascuno prova a sorprendere e straniare l’altro, ad esempio a deviare la direzione intrapresa dal dottor Cohen verso delicati aspetti delle problematiche in gioco.
Meno presenti sono le metafore, le analogie, il linguaggio figurato, essendo il dialogo tra Alicia e il medico per lo più asciutto, secco, denotativo, diretto. Tranne che, devo ricordare, nei due lunghi monologhi narrativi di Alicia: il primo su come ha toccato il diapason della passione il suo incestuoso amore per il fratello Bob (protagonista come ho ricordato sopra di Il passeggero): un amore assoluto, idealizzato, unico. Il secondo sulla sua immaginata fine, poi realizzata, sul fondo di un freddo lago americano. Racconti davvero sconvolgenti dove l’autore tramite il suo personaggio tocca ogni fondo, ogni abisso della natura umana. E ciò con la grande capacità di far sì che stati d’animo, passioni, dolori, angosce non vengono mai raffreddati, resi come astratti e nebulosi dalla complessità delle riflessioni concettuali, che pur ci sono. Tant’è che il finale è tra quelli a cui è difficile resistere al pianto, alla commozione, all’emozione.
Il testo è ricco, tramite la costruzione del personaggio Alicia, di passaggi che affrontano tutto l’arco dell’esistenza umana, e tutti gli aspetti della vita del pianeta e del cosmo, con una visione del vivere tendente ad un affiorante nichilismo. Concetti filosofici, etici, sentimenti religiosi, indagini scientifiche (matematica, meccanica quantistica, astronomia, fisica nucleare, arti musicali), danno una profondità raramente rintracciabile nella letteratura internazionale contemporanea. Ribadisco però che tutto questo complesso di saperi, conoscenze, ipotesi (che nel mio piccolo posso affermare essere verosimili se non vere) divengono tessuto connettivo e potenziale profonda interiorità umana, tali a mio parere da portare eventuali attori ad altissime performances teatrali. Auguriamocelo!
Cormac McCarthy, Stella Maris, traduzione di Maurizia Balmelli, Einaudi, Torino, 2023, pp. 195, euro 18,50.