Ce lo racconta Gaia Clotilde Chernetich nel programma di sala, questo titolo dello spettacolo così evocativo e pieno di riverberi semantici sta a indicare non soltanto una festa; «Karrasekare è, infatti, una variante del sardo Carrasecare (Carnevale) di cui mantiene lo spelling introducendo però la lettera k che ricorre nella lingua basca». Ma sembra anche arricchirsi di ulteriori sconfinamenti. Karrasekare sembra trattenere fonemi a appigli “archeologici” che vanno oltre l’idea stessa di testimonianza della festa, della mera riproposizione agiografica di una qualche tradizione; il duo Igor Urzelai Hernando e Moreno Solinas introiettano intimamente l’atto ch’è linguistico e performativo, per dirla con Jaques Derrida, in uno spettacolo ridefinito nella variante di un corpo-spazio “drammaticamente” visivo, esposto come un affresco, una sintassi pittorica archetipica amplificata da un certo effetto materico del rito (oggetti, maschere, deviazioni di un vestiario orgiastico) e come un murales trasfigura l’onirico e il misterico delle due sponde – quella basca e quella sarda – nella resa a un surplus di narrazioni fisiche, potenti pulsioni interstiziali tra l’immanenza di quei corpi e il rivoltamento interno a quell’essere corpo scenico. Al contempo, Karrasekare ha quella qualità di uno corpo-spazio sonoro in quella proiettiva declinazione concertistica propria di Claudia Castellucci; sono eco di forme che stanno lì a indicare quella alterità antica delle vibrazioni vocali e dei timbri gutturali; sono esauste parafrasi di gioia, sono urla capaci di trasformarsi in pianti della tragedia (ravvisando una più ancestrale architettura propria a Le Troiane di Thierry Salmon), metafore del dolore oggi quanto mai “attuali” rispetto a una modernità sempre molto spesso impegnata a individuare codici scontati della comunicazione e dell’effetto meraviglia. I performer hanno la grazia e la violenza dei corpi migranti anche se non direttamente chiamati in causa, trasfigurati in quel rito hanno la forza di assommare le molte genti che traghettano nel nostro tempo proprio per l’antichissima relazione che le culture sarda e basca hanno con la resistenza: «Esuli, apolidi, nomadi, profughi, rifugiati. Vite di scarto generate dalla globalizzazione. Corpi che appaiono, attraversano le inquadrature e scompaiono nel fuori campo del nostro tempo: si coagulano, per poi disperdersi e sparire nella notte – come lucciole nel buio. sopravviventi, costretti a gesti di rivolta» (1).
Cos’è, d’altronde, una festa dove il mondo animale, quello umano e quello divino si confondono? È dal sedicesimo secolo che la letteratura prova a ricomporre i pezzi di questa pratica della festa “esacerbata” e “corrotta” dalla natura. Anche Eugenio Barba, a suo modo, ne ha cercato di riordinare certi miti di un profondo Nord e un “indescrivibile” Sud del mondo recuperando riti e feste comunitarie senza logos né scritture, proprio per il loro essere apolidi, esuli a partire dal corpo, e nella condizione dell’attraversamento di un mondo nell’altro. La scena si apre con una figura al lato del palcoscenico, percepita nel gioco d’ombre di un ambiente ancora non bene definito, austera nella sua filigrana di contorni popolari di quelle terre antiche; muove un canto-nenia polifonico restituendo una tensione sacrale che si fa musica compiuta, latentemente barocca nel sovrapporsi di altre inserzioni vocali di una base che funziona da contro-canto “passivo”. Il concerto va esaurendosi mentre la figura volta le spalle e si avvia verso il fondo scuro mostrando sulla nuca una maschera. Preludio e tesi di uno spettacolo che scoperchia mondi, mostra anime inquiete, allerta, preparandoci a un viaggio, a un traghettamento verso un altro tempo, qual è quello di un Carnevale non irregimentato, cioè, non addomesticato dal consumismo capitalistico.
Si sottrae alla scena anche il velatino nero che sino a quel momento aveva immerso tutto lo spazio in una coltre nebbiosa e scura, va scomparendo lasciando l’ambiente nella nudità artica di un quadro alla Caspar David Friedrich, dove allo spirito romantico dell’artista dei ghiacci e al suo simbolismo che contrappone l’essere umano all’infinito troviamo invece figure che attraversano lo spazio nella loro dolente condizione di un’attesa. Compaiono e scompaiono, appunto, si ritrovano per un coro d’insieme mai arreso, mai docile. La nenia-canto-armonia ch’è vocale e fatta di interpunzioni fonetiche sposta la scena in un altro campo d’azione, quando i performer la agiscono nella loro corsa ipnotica, denudandosi e rivestendosi di fogge che alludono a segni primordiali quanto a rivisitazioni della cultura che non disdegnano di scombinare gli addendi nel sovvertire i comportamenti di genere, disinnescando di fatto ruoli e fragilità di una danza corale che ambisce alla catarsi. È volumetrica questa danza fatta di tante danze, è “spessa” perché nei corpi ritroviamo la nostra stessa possibilità di parteciparvi, è per questo prossimale, allude a un’occasione in cui tutti spettatori e attori possano ritrovarsi in un vortice di alterazioni e canti propiziatori. Si aggomitola quella materia del pavimento facendone una enorme parte sospesa, issata in alto al centro del palcoscenico, parte dello stesso mondo quasi a ricordare la surreale oggettività delle terre sospese di René Magritte (o del film Avatar) che incombono come il destino. Lavoro complesso, stratificato, potente, dalle molte chiavi di lettura, con performer eccellenti.
Nota
1) Vincenzo Trione, Artivismo. Arte, politica, impegno, Einaudi, Torino, 2022, p. 50.
Karrasekare
regia Moreno Solinas e Igor Urzelai Hernando
direzione di prova Margherita Elliot
interpreti Margherita Elliot, Marcella Mancini, Alessio Rundeddu, Matteo Sedda, Giulia Vacca, Igor Urzelai Hernando, Moreno Solinas
consulenza drammaturgica Simon Ellis
musiche originali, sound design e direzione tecnica Edoardo Robert Elliot
luci Joshie Harriette
tecnici Matteo Maragno, Laurie Paul, Giovanni Spada
scenografia e costumi KASPERSOPHIE
project producer Davide Pisano
prodotto da S’ALA e The Place
co-prodotto con Theatre de la Ville, Fuorimargine | Centro di Produzione della danza in Sardegna, Romaeuropa e Bora Bora
in collaborazione con Toscana Terra Accogliente (con residenze a Anghiari Dance Hub e Armunia, e co-finanziamento di Fabbrica Europa), HKD – Croatian Cultural Centre
con il sostegno di MIC – Ministero della Cultura, RAS – Regione Autonoma della Sardegna, Fondazione Sardegna
con il supporto di Italian Cultural Institute in London, Culture’s Directorate General for Performing Art e NID Platform.
Romaeuropa Festival, Teatro Vascello, Roma, 4 e 5 novembre 2023.
In tournée. Per tutte le informazioni si consulti: https://igorandmoreno.com/calendar/