Avete presente quelle antiche famiglie che non si dicono famiglie perché si sentono clan, stirpe, casata, ma poi si fanno le scarpe che nemmeno la più meschina delle guerre tra i poveri? Quelle che chiamano tenuta la casa di campagna, corte il cortile, délabré i muri scrostati perché non ci sono quattrini per rimetterli in sesto?
Quei blasonati in bolletta che cercano di rifilare agli amici filantropi la sottoveste di pizzo sangallo della bisnonna che più è andata più merita quotazioni alle stelle? Il bello dell’antico. Come una tazza sbeccata senza manico e senza piattino, parte di un servizio da tè pervenuto a metà. Il bello dell’antico. Appunto.
E se non è precisamente questo il corredo drammaturgico de La Tenuta, testo scritto e diretto da Natalia Magni, in scena al CityLab 971 di via Salaria a Roma fino al 21 gennaio 2024, è questo il mood in cui mi sono sentita catapultata. Un’atmosfera dagli odori di muffa di vecchie famiglie borghesi decadenti che sopravvivono in margini altri di società. Perché anche i margini non sono uguali per tutti.
Capostipiti perennemente in vestaglia, affondati in una poltrona usurata, senza incontrare nessuno, memori di privilegi andati e in attesa soltanto di trapassare.
Anche perché la discendenza non è che li abbia fatti contenti. C’è sempre un figlio degenere, in questo caso una figlia, una scappata di casa che di mantenere in piedi la dispendiosa tenuta non ne vuol sapere, almeno così pare a babbo morto, ancora caldo. Poi si vedrà.
Se non fosse che c’è la sorella, quella buona, ligia al volere degli antenati, che accoppiandosi con un mesto e dimesso signore in pantofole, garantisce la continuità della stirpe.
Ma c’è sempre una nemesi, se non nella vita almeno nel teatro come si deve, c’è un contrappasso che punisce i colpevoli. Anche quando non sono davvero colpevoli perché che colpa sarebbe non avere figliato, non amare i nipoti con tutte le viscere e non volerli tra i piedi a intralciare con la loro presenza la tua libera scelta di arrabattarti da sola? Invece ti ritrovi in un attimo inchiodata al tuo ruolo, investita di un’anomala impertinente incombenza che ti tocca gestire. E ci farai l’abitudine.
Di più: ti fai pure carico di tutte le appendici che il ruolo riserva. Che nel giro di un anno scolastico diventano appendiciti all’ultimo stadio. Una tra tutte, aspettare il rientro del nipote negletto con il cuore in gola, alle tre di notte, dopo la cena di classe, paventando un incidente naturalmente mortale con la stessa macchina di cui proprio tu lo avevi dotato. Imperdonabile. I sensi di colpa di un’incolpevole zia che dall’oggi al domani si ritrova a fare da madre, sotto lo sguardo vigile della sorella, sempre presente in un modo o nell’altro.
Voce infallibile della coscienza, la sorella controlla, dirime, bacchetta. La libertà.
Insomma, questa è la situazione, questo è il clima. Perché il testo è innanzitutto una storia di confitto intestino tra due donne a cui per sorte è toccato di essere sorelle. Due mondi opposti, due direzioni, due volontà che si scontrano intorno a un’eredità ben più onerosa di una tenuta.
Non si può spoilerare di più, sarebbe un peccato rovinare con poche battute una storia che merita di essere vista e goduta, ma quel che già si può dire è che questo testo, squisitamente teatrale, si regge su intuizioni strategiche, anche rischiose, che trovano uno sviluppo coerente.
Il meccanismo del doppio, primo patto con lo spettatore, è chiarissimo fin dall’inizio e vede in scena quattro attrici per due ruoli, le due sorelle ieri e oggi, prima e dopo, qui e altrove. Spesso presenti l’una all’altra come un ricordo, una visione che irrompe prendendo vita e consistenza, un frammento di tempo che si riaffaccia nel qui e ora e interloquisce, destabilizza, rilancia, riassesta. Il passato interviene per rimettere in gioco il presente; il presente getta sul passato una luce ulteriore, forse distorce, forze raddrizza, certamente costringe a una revisione.
In questo incrocio di tempi, che vive di flashback anche surreali, espressionistici, si sviluppa il racconto. Con quella dose da cavallo di ironia che è propria dell’autrice, il suo sguardo divertito e dissacrante nei confronti di certo perbenismo d’accatto, e l’adesione piena da parte degli attori, una compagnia in formazione, duttile e affiatata, ampiamente rodata da un Riccardo III che ha riscosso un gran bel successo e che qui vede Liliana Massari e Romina Delmonte nel ruolo della sorella dannata e Gilda Deianira Ciao e Lucia Fiocco nel ruolo della buona e prolifica, Pietro Faiella nel ruolo del padre, Mirko Lorusso del figlio-nipote (ora sostituito da Luca Di Capua), Roberto Baldassarri del marito (ora sostituito da Mirko Lorusso), Alessandro Moser di un dimenticato compagno di scuola che si ripresenta al funerale del padre.
Lo spettacolo, prodotto da Officina Teatrale di Massimo Venturiello, è stato creato e allestito nel solco del più ampio progetto di Luca Ariano negli spazi del CityLab 971 – platea di sessanta posti e palcoscenico dieci per sette – e si vale del disegno luci di Nicola De Santis e della scenografia e dei costumi di Giuseppe Bellini.
La Tenuta
testo e regia Natalia Magni
progetto Luca Ariano
aiuto regia Lorenzo Parrotto
con Roberto Baldassarri, Gilda Deianira Ciao, Romina Delmonte, Luca Di Capua, Pietro Faiella, Lucia Fiocco, Mirko Lorusso, Liliana Massari, Alessandro Moser
disegno luci Nicola De Santis
scenografia e costumi Giuseppe Bellini
produzione Officina Teatrale di Massimo Venturiello.
CityLab 971, Roma, fino al 21 gennaio 2024.