Un testo scritto nel 1902 nella Russia zarista che arriva fin qui e parla al nostro tempo presente senza la supponenza di volerci insegnare qualcosa. Tale è L’albergo dei poveri, opera di Maksim Gor’kij riproposta dallo spettacolo di Massimo Popolizio nell’adattamento di Emanuele Trevi, al Teatro Argentina di Roma fino al 3 marzo e poi a Milano, Teatro Strehler, dal 7 al 28 marzo.
In scena sedici interpreti (cinque attrici e undici attori) che fanno vivere un coacervo di disperati o diversamente speranti, aggrappati a illusioni che non fanno altro che adempiere alla loro funzione: sollevarti dal fango per un attimo solo e poi darti una spinta e farti precipitare nel baratro. Magari appeso a un cappio, insieme ai tuoi amletici versi premonitori e alle tue belle speranze di una vita migliore. Succede all’Attore, uno dei sedici personaggi, e non per caso. Perché è questa la sorte dell’arte nei poveri tempi, questa la sua mansione: accarezzarti, consolarti, illuderti anche, ma provarci sempre. Aiutarti a sopportare quel pezzo di tempo cattivo, tra il non più e il non ancora, che forse non vedrai.
“Perché i poeti in tempo di povertà?”, scriveva Hölderlin in una celebre lirica. “Perché gli Dei se ne sono andati”. Rispondeva Heidegger nella conferenza sull’arte del 1936. Consegnando gli uomini a un tempo indigente. Privato di sacro, di spirito, di bellezza.
Abbandonati nella “notte del mondo” gli uomini vivono un tempo così povero da non poter riconoscere la mancanza del sacro come mancanza.
«Io non ho sentito nessuna voce», dirà il primo personaggio a morire, di fronte alla voce che irrompe, difforme, rompendo il vociare indifferenziato di tutti. È la voce del Pellegrino, l’evento che si palesa sotto le spoglie di un avventore cialtrone, un affabulatore enigmatico, che seduce, irrita, destabilizza. La frattura da cui filtra un raggio di luce nel buio che indica a chi la vuole vedere una via di salvezza. Il “varco del sipario”, oltre il dolore della dimenticanza.
Tutti la cercano, una via di salvezza o almeno di fuga. Tutti sognano di uscire da lì, in un modo o nell’altro.
Tutto pare lecito per liberarsi dalle strettoie di un’esistenza dannata e la vodka non è il mezzo peggiore. Qui si ruba, si uccide, si medita di eliminare chi non è utile e ci si consegna a chi invece lo è, si aggira l’ostacolo nascondendo nella manica la carta vincente, si deride e mortifica.
Eppure, in questo fetido dormitorio gestito da due malfattori, in questi bassifondi dell’anima in cattività permanente, c’è un umore che lega i personaggi, donne e uomini che sembrano non avere nulla in comune, se non l’essere lì, castigati e arresi, a respirare la polvere e a spazzare il pavimento senza rispettare la turnazione. C’è un desiderio di rinascita che passa da una velata tentazione alla bellezza – un mazzo di fiori, una filastrocca cantata in una lingua straniera, una radiolina, una parola strana -, persino dalla ricerca di una verginità dello spirito che si fa carne nel corpo di una giovane donna vessata.
Su tutti agisce la forza dirompente dell’immaginazione che guarda avanti ma anche indietro: cercando in un blasone magari inventato un po’ di rispetto, rimettendo nella persuasione del tuo amico nemico la conferma che non arriva. O rievocando il lavoro di un tempo che ti ingialliva le mani, come una grazia perduta per sempre perché «per quanto tu possa tingere, tutto si cancellerà». E se il cinismo non basta a difendersi dalla lordura, non ti resta che affogare nell’alcol anche tu, sempre più simile a chi hai disprezzato.
Ma accanto alla resa dei vecchi si percepisce l’attesa paziente dei giovani che inventano e aspettano e solo inventando mantengono intatta la possibilità di sperare. E commuove l’amore riposto nelle pagine di un libro e attraverso di esse vissuto e raccontato con il cuore scorticato. Un personaggio liminale che osserva, scruta, incamera informazioni come una bestiolina randagia e poi tira le somme e ti sbatte in faccia il conto della tua cattiveria, inconsapevole fool che finalmente ha capito che i veri animali sono gli uomini.
Quei primitivi animali che hanno prima quattro gambe poi due poi tre e dalla notte dei tempi non hanno ancora capito come si fa a uscire indenni dalla notte del mondo, senza far male a nessuno.
Chi è l’uomo? Si domanda verso la fine un assassino pentito. «Non sono io, non sei tu, non sono loro. Ma sei tu, io, loro, il Pellegrino, Napoleone e Maometto, tutti insieme».
Tutti insieme: anche noi che viviamo di sopra. Il Pellegrino si è dileguato perché ha compiuto la sua missione. In tutti ha lasciato una crepa e in questa crepa qualcuno sta provando a guardare. Invece a noi, che i bassifondi non li abitiamo, ha lasciato un messaggio nella bottiglia. State in campana. «Ho visto così tanta cattiveria fra gli uomini che non so perché Dio non abbia ancora spento il sole e non se ne sia andato».