«Ah, tutti i morti, tutti gli agonizzanti, tutti coloro che soffrono, che sono uccisi, che sono violentati, che sono torturati… migliaia e migliaia di corpi gonfi di annegati, i sepolti, sepolti, sepolti… questo è l’inferno. Raramente, troppo raramente, hanno un attimo, come è accaduto a me stamattina, per intravedere un angolo di cielo, un angolo di bellezza, un angolo di trasparenza del mondo, un istante durante il quale poter credere (stupidamente?) che il Cielo ami l’uomo, che gli uomini si amino tra loro».
Sono i pensieri dolorosi che Eugène Ionesco consegna al suo diario (pubblicato in Italia da Guanda con il titolo La ricerca intermittente). Era il 1986. Il geniale drammaturgo franco- rumeno sarebbe morto a Parigi, nel 1994, alla fine di un secolo che ha mostrato dell’umanità il suo lato più tenebroso. Una tenebra che lo scrittore ebbe il coraggio di varcare, offrendo se stesso, la sua disarmata sensibilità, al servizio di una scrittura polisemica, folgorante, sempre in bilico tra commedia e tragedia. Per interrogare le sue opere, bisogna dunque avere il coraggio di stare svegli la notte per sentire cosa la notte ha da dirci. È quello che ha fatto Antonio Calenda, scegliendo di giocare una carta raffinata, tagliente, con la messa in scena de La lezione di Ionesco. Un regista con la sua storia teatrale alle spalle (creatore, a Roma, dell’avanguardistico Teatro Centouno in cui hanno debuttato Piera Degli Esposti e Gigi Proietti, oltre che al teatro greco si è dedicato al Novecento, interrogando i grandi autori, da Brecht a Beckett, da Čechov a Pinter, senza trascurare la drammaturgia italiana) è sottoposto a mille sollecitazioni e a nessuna. Non bisogna guardare lontano per vedere, d’altronde, il cumulo di macerie: gli scenari di guerra, il deserto culturale. Cosa fare, dunque? Ritirarsi è una possibilità, chiudersi «a guardia di se stesso» (l’espressione arriva da un magnifico testo di Pirandello ignorato da tutti, Quando si è qualcuno). Ma se il palcoscenico è stato per una vita il terreno di combattimento e di ricerca di un senso, non si può arretrare. Ed è grazie a questo non arretramento intellettuale che ci troviamo, come spettatori, a varcare una soglia sottile, nevralgica.
Rappresentata per la prima volta nel 1951 al Théâtre de Poche di Parigi, La lezione è considerata (assieme a La cantatrice calva) l’opera-manifesto del teatro dell’assurdo: «È bene ricordare che Ionesco aveva assistito alla tragedia delle due Guerre Mondiali» scrive Calenda nelle note di regia. «Soltanto le atrocità dei conflitti bellici possono far comprendere il nonsense, l’illogico e il paradossale delle nostre vite».
In una scena evocativa, in cui i pochi essenziali elementi (l’armadio, la sedia), si dispongono alla deformazione, all’ingresso dell’inaudito, si compie un rito sconvolgente. Se nella prima parte della pièce, il Professore (il bravissimo Nando Paone) accoglie la sua Allieva (Daniela Giovanetti, attrice di grazia, temperamento e intelligenza piuttosto rare) con una cortesia esagerata, mostrando stupore per ogni ovvietà pronunciata dalla donna, improvvisamente la situazione precipita nel sadismo. E a poco vale il tentativo della Governante (l’incisiva Valeria Almerighi) di evitare il sacrificio. Più l’Allieva confessa di sentirsi male, più il Professore trae piacere ad infliggerle una pena. Dalle parole gentili si passa al coltello: in mezzo, la sordità totale, l’incapacità di vedere l’altro, che storpia la lingua e fa cadere la comunicazione. La cosa sembra sfuggire al controllo, e quindi alla giustizia. Dietro i dialoghi sulfurei, paradossali, che muovono al riso, cresce una nota di disagio e paura, che esploderà nella cerimonia finale, suggellando il salto di paradigma. Nel testo questo salto è suggerito da una didascalia – «La Governante tira fuori un bracciale con un simbolo, una svastica, per esempio» – a cui segue un’inquietante battuta: «Prenda, se ha paura si metta questo, non avrà nulla da temere… Diventa una faccenda politica». A quel punto il Professore ringrazia la Governante e dice di sentirsi più tranquillo.
Nello spettacolo di Calenda, questa suggestione diventa segno espressivo, esplicita denuncia di quello che non solo è già accaduto ma che potrebbe riaccadere da un momento all’altro. Non più soltanto un bracciale, ma una gigantesca bandiera con il simbolo nazista seppellirà la coltre di cadaveri che non vediamo ma di cui si parla, donne uccise per un capriccio, senza una ragione, perché «l’aritmetica conduce alla filologia e la filologia conduce al delitto». Perché si arrivi alla sospensione di ogni diritto e agli assassinii impuniti compiuti dai sistemi totalitari, non occorrono condizioni straordinarie, ma una ordinaria disattenzione, una quotidiana complicità con il potere, un’allegra corte di uomini e donne che volgono lo sguardo dall’altra parte, contenti di far parte dei “vincitori” e non dei “perdenti”.
Così come Jonathan Glazer ha dichiarato, durante la cerimonia di consegna dell’Oscar (come film straniero) che il suo film La zona d’interesse non vuole parlare soltanto dell’abominio della Shoah, ma del tempo presente, dei morti e dei crimini di guerra che infestano i nostri giorni, allo stesso modo un piccolo ma significativo spettacolo come La lezione si staglia nel nostro frammentato panorama teatrale come un gesto etico, oltre che estetico, riferito alla notte che si è abbattuta oggi sul mondo.
La lezione
di Eugène Ionesco
regia Antonio Calenda
aiuto regia Alessandro Murro
con Nando Paone, Daniela Giovannetti, Valeria Almerighi
scena Paola Castrignanò
costumi Giulia Barcaroli
musiche Germano Mazzocchetti
disegno luci Luigi Della Monica
coproduzione Tradizione E Turismo – Centro Di Produzione Teatrale – Teatro Sannazaro, Teatro Stabile Del Friuli-Venezia Giulia, Accademia Perduta Romagna Teatri.
TeatroBasilica, Roma, dal 6 al 10 marzo 2024.