«Non volevano farmi entrare, e sa perché? Perché alzo l’età media!». Scherza, ma non ha torto l’anziano signore: pochissime biancheggiano le canizie tra i folti trenta/quarantenni, magari anche meno, che fanno pieno il Teatro Vascello.
«Date un teatro a questi ragazzi!» squillava l’endorsement di Christian Raimo all’indomani del precedente lavoro di Fettarappa e Guerrieri, Apocalisse Tascabile. Ora ce l’hanno, e non da oggi, e non soltanto questo: gremito, oltretutto, entusiasta per tutte le repliche di La sparanoia, scritto anch’esso dal solo Niccolò Fettarappa, e che dello stesso Raimo porta in locandina il “contributo intellettuale”. Lunga era stata la tournée di Apocalisse, spettacolo vincitore di In-Box 2021, lunga anche l’attuale, che proseguirà la stagione prossima.
Il grande, trascinante successo La sparanoia se lo sta guadagnando grazie all’energia incontenibile sviluppata sul palco, che si sfoga sopra una scena poverissima, soltanto poca attrezzeria, ma ben tracciata da quattro verticali d’americana, eretti ai vertici di un quadrato. Segni in terra gialli lo sezionano e segnalano la posizione degli oggetti (poliziottescamente, quasi scena del crimine), uno stendino di plastica, una ridicola sediolina da bambino, un quadrato di gomma di quelli componibili, antiurto, da tappeto d’asilo, e poco altro, che entra ed esce velocemente in mano agli stessi attori.
Come si vede, il tema di un’infanzia protratta, propria dell’anima bella del rivoluzionario, insieme a quello della militarizzazione della reazione al dissenso (testimoniata, ultimamente, dalle manganellate della polizia alle manifestazioni studentesche pro-pace) sono due delle linee tematiche principali declinate e intersecate in molte delle scene che compongono il lavoro. La prima linea tende all’affettuosa e patetica ridicolizzazione della figura del rivoluzionario fallito Niccolò. Egli vive in una casa non più ampia di una mattonella, con i genitori tra i piedi, svolge quelli che, prima di perdere drammaticamente il suffisso, si chiamavano “lavoretti”, è in un pigro gruppo di lotta di classe, intrattiene un rapporto sadomasochistico con le forze dell’ordine e con l’informazione televisiva mainstream – a inaugurare lo spettacolo è la sigla del Tg1 e la sconsolata apertura, che ricorda la Mafalda di Quino, con l’orecchio al radiogiornale: «non ci sono buone notizie».
E il giornalista, un Lorenzo Guerrieri che assume su di sé per gran parte del lavoro il ruolo del Sistema, ora come carabiniere, ora come presentatore di talk show, ora ministro con la bava alla bocca, amico “normale”, smaliziato, va fin da subito ridimensionando, censurando le velleità di Niccolò: niente rivoluzioni, naturalmente, ma nemmeno manifestazioni, né incontri di studio. Al massimo gli si consente una riunioncina in uno sgabuzzino con succhetti in brick da succhiare, ognuno il suo (ed ecco che i diminutivi tornano a proliferare).
Allo stesso succhetto, segnale della puerilizzazione della politica rivoluzionaria, si aggrappa Fettarappa, mentre il carabiniere Guerrieri, in una luce ambigua, glielo porge in stile fellatio, prima di indurlo, con un esplicito, passionale compiacimento della “vittima”, a lasciarsi sculacciare e poi sodomizzare con una paletta da vigile urbano.
L’allegra trivialità, il ruvido grottesco sono il registro più diffuso e più efficacemente cavalcato, al netto di qualche vaffa di puro sfogo e di giochi di parole trascurabili (“Il resto del Merdino” è il quotidiano consultato in scena).
Ma c’è un’altra costante che sfila per l’intera durata del lavoro, diremmo una costante energetica, di registro emotivo, ed è quella della furia violenta. Una furia strabordante e impotente che prima si sfoga nel turpiloquio, nella violenza verso il povero Niccolò, e che nel finale si dimostra impossibile da comprimere nell’angusto spazio della scena, riversandosi sul pubblico in un finto attacco terroristico (più inquietante nei giorni che seguono l’attacco moscovita alla Crocus City Hall) con pistole ad acqua, concluso in una comica esecuzione di incolpevoli spettatori in evidente stile-Rezza, ma con meno insistita, estesa violenza, pudicamente lontano dagli occhi degli spettatori.
A uno come il Niccolò-personaggio, ridicolizzato, umiliato, reso fuori corso della contemporaneità, non rimane altro che questa violenza – non la violenza di classe, ma l’esplosione distruttiva purchessia. E in mezzo alla platea, che volentieri è trascinata da questa frustrazione collettiva e a cui chi scrive rivendica l’appartenenza, una platea consenziente, si potrebbe dire, forse dovrebbero farsi strada due domande, una interna e una esterna al dettato dello spettacolo.
La prima: in cosa ha fallito Niccolò, e quelli che rappresenta, per ridursi a fare strage, extrema ratio definitiva, terrorismo? Ce lo racconta il testo, ha fallito nell’adottare il flashmob come surrogato di altre azioni di protesta, ha fallito nel lavoro e nella famiglia, ha fallito concentrando energie in strategie alternative sull’alimentazione («quinoa e tisane al finocchietto»), nelle vacanze allineate («Capalbio»), nella reazione linguistica a neologismi arrembanti (a chi è “in call” rivolgerebbe il morettiano «le parole sono importanti!»), nel look (i «rasta»), nel tentativo di mantenersi al sicuro da conseguenze legali quando va, o sogna di andare, alla rivoluzione o anche soltanto alla riunione di sezione (è «nel penale», lo minaccia il brigadiere), ha fallito nella commercializzazione e giovanilizzazione di un’idea di sinistra allegra e scanzonata («sono un ragazzo fortunato», canta). Diversamente dal “perditore” per eccellenza, quel ragionier Fantozzi il quale lasciava emergere per contrasto con la meschina a-politicità del personaggio un dissenso radicale, risultando rivoluzionario davvero a chi lo guardava col terrore di esserne lo specchio, il Niccolò-personaggio di Fettarappa, dalla sua posizione dichiaratamente politica progetta di attirare un consenso sulla sua autofustigazione, come in un rito collettivo di purgazione, di autodenuncia, considerandoci tutti, senza poi sbagliare troppo, già dentro il mucchio dei falliti.
La seconda domanda è: da quale repertorio Ferratappa estrae il materiale della sua critica, da quale osservatorio la studia? – e si vede bene che questa seconda domanda è un altro modo di porre la prima. La visione del “comunista” che si nutre di quinoa, che va a Capalbio in ferie, che tira in ballo la lotta di classe come un mantra e poi consegna pizze, che sogna ancora Fidel, che vede appennicarglisi accanto gli sgarrupati compagni di lotta inconcludenti, risponde a caratteristiche di una maschera satirica di destra – cioè di un’immagine che (legittimamente) proprio la destra coltiva e diffonde del militante di sinistra minchione e patetico.
Il sospetto, dunque, è che la critica di Fettarappa abbia pescato distrattamente nel repertorio più a portata di mano, quello delle conversazioni leggere e rilassate davanti a una birra o, peggio, dal virus impalpabile della comicità commerciale, televisiva. Il sospetto, cioè, che la critica si sia lasciata possedere senza reazioni, magari con un filo di compiacimento – forse perché il mettere alla berlina la penosa inadeguatezza di Niccolò è nato da un desiderio di condivisione, di affettuoso consenso, prima che dal pungolo sofferto dell’autocritica. Altrimenti questa avrebbe facilmente potuto essere più a fuoco, evitando, ad esempio, di eleggere il Tg1 a organo di stampa credibile al punto da meritare una dissacrazione; o di citare Mario Draghi in un contesto di attualità politica, o di fare uso dei tormentoni su personaggi quali Jovanotti e Veltroni, fuori dai radar della sinistra da lustri, ormai politicamente da tempo volti in macchiette da Zelig.
La critica alla sinistra, che avrebbe ben altre praterie su cui scatenare la propria selvaggia corsa, rinuncia a volgere lo sguardo lontano dall’ampia gamma disponibile dei cliché prefabbricati che, in molti casi, sembrano portare il marchio di fabbrica dalla parte avversa, come si diceva.
Non è difficile fare la prova, basterebbe l’operazione – scientificamente indifendibile, è vero, ma stimolante – di chiedersi che cosa farebbe un avveduto spettatore conservatore, di destra, di fronte alla Sparanoia. Sogghignerebbe per l’acuta satira delle incapacità di una classe dirigente? O della ostinazione di una visione del mondo così inflessibile da essere anacronistica? Sarebbe inquietato, spaventato dalla validità che un’idea di analisi della società tutto sommato mantiene? No: riderebbe, è ovvio, e lo farebbe dandoci di gomito. Realizzerebbe che, una volta di più, non abbiamo capito, che lo sguardo è sfocato, perché non è veramente il nostro. Che anche l’autocritica ormai l’abbiamo esternalizzata.
Certo rimane una scappatoia, che è la tematizzazione di questo fallimento: magari nella scrittura di Fettarappa la furia impotente del personaggio-Niccolò non si rivolge, come sembrerebbe, contro l’oggetto-militante-di-sinistra, ma è rivolta invece all’inefficace autoanalisi che egli fa di sé, come se, insomma, sopra questa vi fosse un ulteriore piano, dal quale l’autore ci invita a guardarla, beffardo, e se non soltanto a noi, ma anche a lui stesso quell’impotenza risultasse penosa e grottesca. Forse è così, e La sparanoia è allora un lavoro sull’incapacità della sinistra di vedersi e costruirsi con acribia di sguardo, con vitalità di immaginario, e di avere ancora vita, cultura e un proprio legittimo orgoglio… Oppure quella risata disimpegnata, (anche) di destra, è sì la conquista orizzontale di un testo brillante e di attori esplosivi, ma anche l’esercizio di un’autocritica scandalosamente à la page, il segno di un’ulteriore abdicazione all’alternativa e alla proposta interpretativa, culturale, all’immaginazione e creazione della realtà. Insomma del metaforico incanutirsi delle nostre teste di trenta/quarantenni, magari anche meno. E quel simpatico anziano in platea va a finire che siamo noi.
La sparanoia. Atto unico senza feriti gravi purtroppo
progetto ideato e scritto da Niccolò Fettarappa
con Niccolò Fettarappa e Lorenzo Guerrieri
contributo intellettuale di Christian Raimo
regia di Niccolò Fettarappa e Lorenzo Guerrieri
assistente alla regia Giulia Bartolini
co-produzione SARDEGNA TEATRO, AGIDI, con il sostegno di Armunia Teatro, Spazio Zut, Circuito Claps, Officine della cultura.
Teatro Vascello, Roma, dal 26 al 30 marzo 2024.