Aggirarsi attorno a un nuraghe sulle colline della Marmilla, nell’entroterra meno battuto della Sardegna, tra fiori di cappero e cespugli di rosmarino. Gli occhi che vagano tra gli alberi e i sassi e le cuffie alle orecchie. Siamo al Parco Archeologico Genna Maria e stiamo assistendo alla performance sonora ideata da Giorgina Pi, dedicata alla poetessa inglese Kae Tempest. Un compendio di parole, suoni, canzoni in inglese e greco moderno, estratti di interviste, rumori di acqua e di tuoni, da ascoltare e godere in solitaria, afferrando qua e là frammenti di senso che parlano ai cuori e alle storie minime di ciascuno di noi, senza la pretesa di trasmettere un pensiero compiuto. Arrivano versi probabilmente tratti da Hold Your Own (Resta te stessa) e si segue l’ipotetico percorso di un quotidiano Tiresia che “si è trovato un compagno, si è dato alla ceramica e ora canta nel coro locale”. Un personaggio vissuto più a lungo di quanto non narri la sua stessa leggenda, “rimasto sé stesso in tutti i sé stesso” che ha attraversato. Il mai pienamente svelato mistero di chi sa o ha imparato a guardare lontano. Nata vicino ai fantasmi, nata tempesta (questo il titolo) è una singolare esperienza immersiva che anche il luogo rende irripetibile.
Programmata all’interno del Nurarcheofestival, è l’ottavo appuntamento (su venti), della rassegna diretta da Rita Atzeri e Iaia Forte, sempre in linea con la mission che l’aveva ispirata ormai sedici anni fa: coniugare il teatro con luoghi meravigliosi e sconosciuti ai più, da riscoprire e valorizzare.
Non solo. Perché, come tiene a sottolineare Rita Atzeri, «in un momento storico in cui noi sardi vediamo minacciato il paesaggio e l’ambiente della nostra terra dall’invasione eolica, il Nurarcheo mi appare ancora di più come una sacca di resistenza, un luogo di militanza e rivoluzione come solo il teatro può e sa essere».
Il luogo scelto per questa XVI edizione è il comune di Villanovaforru, provincia Sud Sardegna, a un’ora da Cagliari: 7000 abitanti, una biblioteca e un museo allestito in una palazzina ottocentesca, sulla piazza centrale dove si affaccia anche la chiesa. Quattro stanze che espongono reperti rinvenuti nell’omonimo complesso nuragico – vasellame, strumenti litici e metallici – che raccontano di comunità rurali vissute tra il Neolitico e l’età Bizantina e testimoniano di una terra che non ha conosciuto la razzia dei tombaroli.
Nello stesso parco, poco più a valle, in una sorta di arena circolare, è andato in scena Arianna nel labirinto, una curiosa e liberissima interpretazione del mito e della figura di Arianna e del Minotauro scritta da Vito Biolchini in forma di monologo, con Salima Balzerani, brava anche nel controllo costante del gesto (produzione Il Crogiuolo). Dove la vicenda di Arianna è raccontata come un percorso di liberazione e di autocoscienza e il rapporto con Teseo, così come ci è pervenuto, si intreccia a quello, immaginato, che i due decidono di tramandare. C’è un antefatto inventato dall’autore che li spia mentre si accordano su cosa lasciar detto di loro, tra le disposizioni di uno e i dubbi dell’altra. “Noi siamo due archetipi” – le dice Teseo- “tu l’abbandonata e io il seduttore … e tutti credono sempre alla storia della ragazza abbandonata”.
Ma in questa persuasiva rivisitazione del mito, il vero labirinto è quello che Arianna si trova ad attraversare al di fuori di Cnosso, ora illusa dalla vanagloria di un codardo mitomane che prima si serve di lei e poi la pianta in asso (in Nasso), ora sposa di un Dio capitato lì quasi per caso che nemmeno si domanda se è gradito o meno. Perché tutto è permesso, se gli Dei sono vivi. Finché sono vivi, finché tu non scegli, liberamente, di liberarti di loro. “Ti lascio per scegliere chi essere e chi amare”. Basta guardarti allo specchio e gli Dei sono morti. E se hai trovato te stessa non c’è più bisogno nemmeno di Dioniso. Allora si può anche fare ritorno a Cnosso e riconciliarsi con chi, senza colpa, è stato rinchiuso e isolato: per la vergogna di allora e i pregiudizi di oggi. “Il segreto” – dirà Arianna verso la fine – “non è sapere come uscire dal labirinto ma come rimanerci finché non avrai trovato la tua via di uscita”.
Altra grande figura tragica, Medea, è stata invece affrontata nella recente operazione di Elena Bucci e Marco Sgrosso de Le Belle Bandiere con La canzone di Giasone e di Medea, presentata nell’area archeologica di Pinn’e Maiolu, a due passi dal Museo. Drammaturgia che fonde Euripide, Seneca, Apollonio Rodio, Franz Grillparzer e Jean Anouilh per cinque interpreti in scena e una restituzione del mito lineare e cristallina, che si giova di maschere funzionali a più ruoli e di un dialogo costante con il coro, affidato a Nicoletta Fabbri, Francesca Pica e Valerio Pietrovita. Non accessorio ma maglia del tessuto narrativo, il Coro interviene e agisce, sincronizzato nei gesti plastici e nelle voci. Fa sorridere e incontra il favore di certo pubblico attento la doppia pronuncia dei nomi propri suscettibili di accentazione greca e latina, Èsone o Esòne, Giàsone o Giasòne, Odìsseo o Odissèo, Ègeo, Egèo, scanditi non senza divertimento in un testo che parla chiaro al nostro tempo, mantenendo intatta la struttura classica della tragedia, senza cedere né ammiccare ad attualizzazioni posticce. Eppure, viene fuori tutta la rete di sentimenti belli e brutti che da sempre ci appartengono non soltanto in quanto esseri umani ma in quanto abitanti di questo occidente imbarbarito, inospitale, respingente. Dove l’esule è negletto e lo straniero bandito e chi si contamina viene schivato. A meno che non si ricreda e rientri nei ranghi rassicuranti di una routine medio borghese, fatta salva la facciata e garantita la carriera.
Nell’evoluzione del rapporto tra Giasone e Medea si rintracciano chiare tutte le dinamiche di un rapporto di coppia malato e fallimentare, fatto di opportunismo e manipolazione, ricatti, rivendicazioni, sensi di colpa immeritati, vendette, tradimenti, in un capovolgimento dei valori primari che certo non è una gran novità ma in un’ora e mezza di buon teatro fa sempre il suo effetto.
Con la tragedia greca è già stato detto tutto. Una considerazione insopportabile, quasi un leitmotiv che traveste di autorevolezza una dissuasione aprioristica, spocchiosa e civettuola. Diverso è lavorarci su, riascoltare e rielaborare quelle parole, generando nuove forme e pervenendo a nuovi approdi, farsi carico di quei sentimenti e di quelle emozioni, avvertire come proprie quelle persistenti condizioni dell’esistente, dello stare nel mondo, esposti al rischio, vincolati alla scelta, compromettersi e insieme percepirsi fortemente compromessi, chiamati a prendere parte, anche a schierarsi apertamente: scrivendo, parlando, facendo il nostro o il vostro teatro, insomma dando ciascuno il proprio incensurabile segno di esistere. L’unica possibile strada da percorrere, a parte il suicidio. Lo hanno fatto dei giganti, d’accordo. Ma non è dato soltanto ai giganti.
Non meno accorata è la serata che Iaia Forte ha dedicato a Sandro Penna, uno dei suoi amati poeti. Con Vestita di lui l’attrice e regista ci rende partecipi di questo suo grande amore: per la poesia e per un poeta al quale da tempo voleva dare voce. Attraverso estratti di saggi, interviste e soprattutto versi in cui scorre la vita di chi sa stare “lontano dal traffico”, defilato rispetto a ogni corrente, irregolare per indole e non certo per scelta ideologica. «La sua grazia, sensualità, originalità e mistero mi fanno incontrare le sue parole con lo stesso stato d’animo con cui ogni volta si va a incontrare un innamorato». Con un corpetto di lustrini e un cappello maschile, da mettere e togliere a seconda dei ghiribizzi di entrambi.