Con Fabrizio Crisafulli comincia la quinta stagione di Esercizi di memoria. In questo primo appuntamento, incentrato sul tema del Contagio, l’artista ci conduce in un racconto che parte dai primi anni a Catania, prosegue attraverso la stagione romana delle manifestazioni e del “Teatro delle cantine” fino all’avventura con un gruppo di ricerca di base nei territori del Sud d’Italia. Innumerevoli matrici per il teatro a cui darà vita.
Da bambino non facevo altro che sfogliare libri di storia dell’arte; mio padre, per fortuna, ne aveva molti. Guardavo le figure, mi piaceva. Credo che quella sia stata per me una sorta di prima formazione. Poi, quando ho imparato a leggere, volevo sapere della vita degli artisti, cosa avessero fatto, ma continuavo ad essere attratto soprattutto dalle figure in quei libri.
Ho portato un oggetto che ha a che fare più direttamente con il teatro. Sono due marionette: un gendarme e una strega. Ne avrò una quindicina di queste marionette. Quando avevo undici anni facevo degli spettacoli… costruivo il boccascena, con tre cassetti, due corti e uno lungo… il pubblico era un gruppo di bambini più piccoli di me.
Vivere in Sicilia in quegli anni era abbastanza duro. Le ragazze non si vedevano, stavano dentro casa, non uscivano. A scuola, a ricreazione, i ragazzi andavano in un cortile e le ragazze, che avevano il grembiule nero, in un altro. Era questa l’atmosfera da cui cercavo di uscire, suonavo la batteria in un complessino rock, anzi “beat”, come si diceva allora.
Quando nel 1968 sono arrivato a Roma per studiare Architettura conoscevo già bene la città perché mia madre era romana. Era evidente che stava succedendo qualcosa. La prima manifestazione a cui ho partecipato era contro Nixon. C’era un’elettricità incredibile nell’aria. Allora le manifestazioni non erano fatte di palloncini, canti, balli, eravamo compressi, molto compressi. Basta vedere come eravamo vestiti. Adesso i padri si vestono come i figli, con pantaloncini e scarpe da ginnastica, allora erano i figli a vestirsi come i padri. Avevamo una carica di rabbia fortissima, anche se non sempre si sapeva bene dove indirizzarla. Erano anni in cui si voleva cambiare il mondo. Nei primi anni Settanta seguivo molto le mostre e gli spettacoli a Roma, le rassegne di Fabio Sargentini, ad esempio, all’Attico (1) di via Beccaria, dove venivano invitati tutti gli americani della post-modern dance, Steve Paxton, Trisha Brown, Simone Forti, e musicisti come Philip Glass, Steve Reich, La Monte Young, artisti straordinari allora poco conosciuti. Ho scoperto un’altra dimensione: a Catania c’era l’Etna, che esercitava su di me un’attrazione fortissima (andavo spesso a vedere le eruzioni da vicino), a Roma questi incontri e queste visioni che mi hanno fortemente contagiato. Condividevo la casa con il mio compagno di studi ad Architettura Goffredo Bonanni (2), che faceva lo scenografo e lavorava con Giuliano Vasilicò. Così ho incontrato il cosiddetto “Teatro delle cantine”. Andavo soprattutto al Beat 72, dove ho cominciato a seguire il loro lavoro. Vasilicò era considerato uno dei maggiori esponenti del “Teatro immagine”, definizione dei critici che lui rifiutava. Non tutto quello che faceva mi piaceva, ma quello che mi colpiva era la sua assoluta dedizione al teatro. Vasilicò impiegava due o tre anni per fare uno spettacolo, a volte anche di più. Per L’uomo senza qualità ci sono voluti dieci anni, lo stesso tempo impiegato da Musil per scrivere il romanzo. In quel periodo, quando si stava fuori dagli ambienti di lavoro, non si poteva parlare di altro, si parlava solo dello spettacolo. Le 120 giornate di Sodoma, nel 1972, è stato lo spettacolo che ha rivelato tutto il fenomeno delle cantine. Durante la sua preparazione il Beat 72 era diventato una specie di segreta, un sotterraneo come il castello del romanzo di Sade. Nello spettacolo c’erano i carnefici, le vittime e i mediatori. Vasilicò aveva creato un gruppo di persone e dalle loro relazioni pian piano capiva chi fosse un carnefice, chi un mediatore e chi una vittima. Così i ruoli venivano fuori dal lavoro di gruppo e dalle relazioni. In un certo senso quel lungo processo di creazione è stato per me un seme di quel tipo di lavoro che poi ho chiamato “Teatro dei luoghi”, dove la matrice del lavoro, oltre al sito fisico, sono le relazioni tra le persone.
Pur continuando a seguire le arti visive e quello che accadeva nelle gallerie e nei teatri, ad un certo punto, mentre ero studente, mi ero appassionato ai problemi urbanistici, all’assetto del territorio, alle questioni ambientali. Ho cominciato a fare ricerche in questo campo. Entrai in contatto con un gruppo di lavoro di base, nato nel 1968 nel Belice, dopo il terremoto. Ho lavorato con loro per tanti anni. Facevo inchieste e studi che poi venivano pubblicati in giornali di movimento e in riviste scientifiche. Lavoravo con l’Istituto di Urbanistica della Facoltà di Architettura. Durante le inchieste, parlavo molto con le persone dei luoghi. Mi ricordo di un pastore che stava all’interno dell’area della SINCAT, il grande petrolchimico a nord di Siracusa. In questo paesaggio pazzesco, con tutte le ciminiere, mi raccontava della sirena Lighea che, secondo la leggenda, viveva nel golfo di Augusta (quella del racconto di Giuseppe Tomasi di Lampedusa). Venivo in contatto non solo con i problemi concreti delle persone, ma anche con il loro immaginario. E comprendevo quanto questo fosse presente e radicato, nonostante l’invasione delle strutture industriali, in molte persone del luogo. Questo tipo di lavoro, che ho svolto per tanti anni, è stato certamente un’altra matrice, un altro “contagio”, alla base dell’idea del teatro dei luoghi.
Note
1) La Galleria L’Attico di Piazza di Spagna è stata fondata nel 1957 da Bruno Sargentini, ma nel 1966 il figlio Fabio, rivoluzionando la concezione dello spazio espositivo, ha lasciato piazza di Spagna e spostato la galleria in un garage di via Beccaria. Al Garage ha organizzato mostre memorabili come quella di Jannis Kounellis, Mario Merz, Eliseo Mattiacci, Sol Lewitt, Gino De Dominicis, Dennis Oppenheim, Jean Tinguely e molti altri. Contemporaneamente è il momento dei festival di musica e danza con musicisti e danzatori americani che aprono la strada alla performance. Nel 1969 è la volta del festival Danza Volo Musica Dinamite, al quale prendono parte musicisti come Simone Forti, La Monte Young, Steve Paxton, Deborah Hay, Trisha Brown. Per molti di loro è la prima apparizione in Europa e nel 1972 un secondo Festival musica e danza, tutto statunitense, vede la partecipazione di Philip Glass, Steve Reich, Simone Forti, Yvonne Rainer.
2) Goffredo Bonanni, artista trapiantato a Il Cairo, sperimenta diversi linguaggi, tra cui il design e la moda. Instaura un lungo sodalizio artistico con Giuliano Vasilicò, collaborando ai testi e realizzando scene e costumi per i suoi spettacoli. È per la prima volta anche in scena nel Proust (1976).