«L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio».
Quando il 2 febbraio scorso ho visto La Frontiera, ultimo lavoro di Margine Operativo – presentato in anteprima nazionale al Teatro Argot di Roma dall’1 al 3 febbraio – le parole di Italo Calvino sono rimaste sempre con me. Già, perché è di quell’ “inferno dei viventi” che ci parlano Alessandra Ferraro e Pako Graziani nel loro spettacolo, costruito con rigore e avvolto da un’intensa aura poetica.
Nella partitura drammaturgica, si intrecciano le suggestioni di differenti fonti letterarie il cui comune denominatore è esplorare il significato di quella “linea immaginaria eppure realissima” che è la frontiera. Frontiera che, al pari del margine, è uno spazio inafferrabile, indefinibile e al contempo concreto dove – per dirla con Zygmunt Bauman – possono «germogliare (consapevolmente o meno) i semi di forme future di umanità». Alessandra Ferraro e Pako Graziani partono da qui: le riflessioni del filosofo e sociologo polacco fanno da sottotitolo alla messinscena. Una dichiarazione di poetica scelta per condurre anche lo spettatore a intraprendere il proprio viaggio al di qua e al di là di quella linea imprecisata e in perenne mutamento.
A Zygmunt Bauman fanno eco il romanzo di Alessandro Leogrande La frontiera (Feltrinelli 2015), l’inchiesta di Annalisa Camilli Da Bardonecchia a Briançon, in viaggio con i migranti sulle Alpi (“Internazionale” 2018) e il romanzo di Cormac McCarthy La strada (Giulio Einaudi Editore 2007) così come gli stralci della relazione sugli immigrati italiani che l’Ispettorato per l’Immigrazione degli Stati Uniti consegnò al Congresso nel 1912. Lo spettacolo inizia con queste dichiarazioni: un invito ufficiale a controllare i nostri connazionali e a rimpatriarne i più per difendere la sicurezza del popolo americano. Si parte da lontano per riannodare i fili della Memoria e della Storia e, senza retorica, Alessandra Ferraro e Pako Graziani tessono una tela, un filo sottile, ma indelebile, tra passato e presente.
Da solo in scena c’è un bravissimo Tiziano Panici. L’attore si fa testimone dei fatti raccontati e, ben diretto da Pako Graziani, riesce per l’intera durata dello spettacolo a mantenere un tale rapporto armonico tra i toni, i timbri vocali e i movimenti gestuali da consentire agli spettatori di non perdere mai l’attenzione. Insieme a lui, ci troviamo catapultati nell’America dei primi del Novecento, familiarizziamo con le difficoltà incontrate dagli italiani nell’inserirsi nella società e nel subire costantemente discriminazioni razziali. «Generalmente sono di piccola statura e di pelle scura. Non amano l’acqua, molti di loro puzzano perché tengono lo stesso vestito per molte settimane». Quante similitudini tra ieri e oggi!
Poi, ci immergiamo tra i fondali marini del Mediterraneo al largo di Lampedusa. Sembra di vederli quei corpi inermi di uomini, donne e bambini, gonfiati dall’acqua, imprigionati in imbarcazioni fatiscenti in fondo al mare. Non ce l’hanno fatta. L’unica giustizia per loro è almeno quella di essere recuperati. Quando vengono adagiati, gli uni accanto agli altri, sulla sabbia, capiamo un po’ di più di loro: chi ha trovato conforto in un ultimo abbraccio; chi ha provato a vincere la propria battaglia, liberandosi dei vestiti; chi, invece, quel coraggio non lo ha avuto, e ha ancora addosso scarpe e maglioni; chi ha ancora impresso sul viso uno strano sorriso. Ne La Frontiera, questo momento è particolarmente intenso, intriso di poesia e di umanità. Alla sofferenza corrisponde la gestualità pacata dell’attore e la sua voce rotta. Un po’ come quel “silenzio assoluto” e quella “strana calma” restituiti con una scrittura straordinariamente incisiva da Alessandro Leogrande.
Il ritmo cambia, quando Tiziano Panici veste i panni del giovane diciassettenne guineano Mohammed Traoré. Il ragazzo scende dal treno – in arrivo da Oulx – a Bardonecchia, piccola città dell’Alta Val di Susa che, al pari di Lampedusa, «sta diventando un luogo idealtipico della nostra coscienza civile, uno di quei posti che ci definiscono» (Francesco Cancellato, “L’Inkiesta”, 27 marzo 2018). Traoré-Panici si prepara ad attraversare il confine alpino per raggiungere Briançon, dall’altra parte della famigerata catena montuosa, in Francia. A differenza di quanti non ce l’hanno fatta, lui è vivo. Deve poter riuscire a varcare le Alpi. Anche se è pieno inverno. Anche se può costare la vita. L’attore si organizza per la traversata davanti a noi: cappello di lana, zaino in spalla, scarpe ricoperte di buste di plastica, svariati strati di maglioni, giacca a vento, e va. L’energia di Traoré nel raggiungere il suo obiettivo è potente tanto quella di Panici. Non c’è tempo da perdere. Il pericolo, grande, deve essere sfidato. L’interprete carica sul suo corpo il peso dell’interminabile camminata, fino a quando – pur arrivando alla città francese – non allenta la tensione e lascia spazio alla riflessione. Poche frasi, ma significative, riprese dal reportage di Annalisa Camilli: «Io credevo che l’Italia fosse l’Europa, non pensavo che ci sarebbero stati tanti problemi né che ogni paese europeo fosse così diverso».
All’interno di quel gioiello che è il Teatro Argot, in uno spazio praticamente vuoto, popolato soltanto da qualche foglia secca a terra, l’attore traccia con uno scotch adesivo rosso un confine, un solco, dove diviene potente lanciare il messaggio: la frontiera dunque cos’è? È luogo d’incontro o di chiusura ed esclusione? Che cos’è un’Europa che rafforza e protegge con intransigenza i suoi confini contro il resto del Mondo che essa stessa ha gettato nella disperazione? Tutto questo può avere un futuro?
Delle risposte ne La Frontiera ci sono e arrivano come stimolo di un ragionamento plausibile, e auspicabile, inserito con sapienza nell’impianto drammaturgico dello spettacolo: dal romanzo di “fantascienza possibile” che è La strada di Cormac McCarty alla lettura del Martirio di San Matteo del Caravaggio fino a Le città invisibili di Calvino. In un universo inospitale e morto, abitato da alberi secchi, quasi mummificati, che si stagliano su un cielo plumbeo tra edifici distrutti e un mare privo di vita, qual è la risposta suggerita dallo scrittore, drammaturgo e sceneggiatore statunitense? L’apertura verso gli altri, superando i ricordi che ci legano al vecchio Mondo. E da Caravaggio? Guardare in faccia le vittime, senza l’ipocrisia di fuggire, ma tentando di restituire con pietas il rispetto per gli esseri umani e «risolvere le cause che generano la fuga in massa di interi popoli». E, infine, da Calvino? Che cos’è Eufemia? Una “città invisibile” in grado di custodire i frammenti, i ricordi, i vissuti di quel complesso “poliedro” che è la vita, terra accogliente dove avere cura di far germogliare lo “scambio” tra le persone e alimentare la speranza di contrastare la violenza e l’indifferenza.
La Frontiera
uno spettacolo di Margine Operativo
ideazione Alessandra Ferraro e Pako Graziani
drammaturgia e regia Pako Graziani
liberamente tratto dai testi di: Alessandro Leogrande, Annalisa Camilli, Cormac McCarthy
con Tiziano Panici
sound designer Dario Salvagnini
light designer David Ghollasi
foto di scena Manuela Giusto
Teatro Argot, Roma, dall’1 al 3 febbraio 2019.
Lo spettacolo verrà replicato all’interno della prima stagione di Spinoff Roma – Prima della fine – domenica 31 marzo alle ore 20. Alle 18.00 dello stesso giorno, la presentazione del libro I teatri di Margine Operativo, a cura di Andrea Pocosgnich, pubblicato da Editoria&Spettacolo nella collana “Spaesamenti” diretta da Paolo Ruffini.