Nella motivazione del premio Nobel per la letteratura del 2023 assegnato allo scrittore norvegese Jon Fosse si afferma opportunamente che il premio viene assegnato «Per le sue opere teatrali e di prosa innovative che danno voce all’ “indicibile”» (virgolettato mio).
Teatralmente siamo abituati a tener conto del “detto” e del ”non detto”, e l’ “indicibile” in genere si è inteso soprattutto dal punto di vista delle regole sociali e di buona educazione da rispettare. Ovviamente non è il caso delle opere, moltissime e di vario genere (drammi, narrativa, favole per l’infanzia, saggi, poesie), di Fosse. Nel suo caso ci si deve inevitabilmente riferire a tematiche estreme dell’esistenza: il vivere, il morire, il profondo della coscienza, i rapporti d’amore fra le persone, la dimensione spirituale religiosa, quella divina. La scrittura dell’autore norvegese taglia fuori di netto gli aspetti sociali, ideologici, politici della vita contemporanea, per puntare dritto sulle tematiche su citate.
Hanno ragione quei critici e studiosi dell’opera di Fosse a intravedere una sua memoria culturale, specie nei testi per il teatro, che riporta sia a Čechov che a Beckett: il sentimento nostalgico di una mancanza, di un vuoto esistenziale, e la dimensione nichilista della realtà.
In più, però, è ormai assodato da tempo che la scrittura di Fosse si orienta decisamente verso zone dell’esperienza umana “estreme”, in cui è possibile dar voce, appunto, all’ “indicibile”, all’inesprimibile; in cui assieme alla logica dell’immediatamente apparente e verificabile vive l’intuizione, il “terzo occhio”, l’esperienza mistica con la quale abbracciare tutto il Reale, il Cosmo (per il Nostro è rappresentato dal grande mare del Nord, dai fiordi, dalle selve); l’Anima del mondo con le sue improvvise epifanie (come nel recentissimo Un bagliore, uscito in Italia per La nave di Teseo); la dimensione, visibile, dello Spirituale (la cui riscoperta molto deve ai nostri Federico Faggin e Giacomo Mauro D’Ariano, che sostanziano tale dimensione con la meccanica quantistica e le teorie dell’informazione, e quindi del tutto inseriti coi loro studi nel campo dell’ ”Invisibile”).
Naturalmente Fosse non è né un filosofo, né un teologo, né un sociologo, per cui essendo uno scrittore, in particolare, per quanto qui interessa a chi scrive e a chi mi leggerà, scrittore per il teatro, ha dovuto e saputo direi in modo unico, almeno per il nostro tempo non solo storico ma anche etico ed estetico, inventarsi uno stile, una modalità molto personale di creare un correlativo oggettivo tra contenuti e forme espressive, che lo hanno portato sulle scene di molti Paesi del mondo, e per l’Italia con un certo ritardo e con pochi artisti bloccati anche dal nostro sistema di produzione e di distribuzione (due nomi soltanto di registi che hanno inscenato lavori di Fosse: Valter Malosti in particolare con Inverno e Valerio Binasco con, ad esempio, Sogno d’Autunno e La ragazza sul divano). Ma, all’essenza, in cosa consiste lo stile drammaturgico, di Jon Fosse?
Innanzi tutto, qualche osservazione inevitabile sui personaggi. In genere sono degli anonimi, non hanno letteralmente un nome, ad esempio nello straordinario Io sono il vento, edito in Italia da Titivillus nel 2012, assieme a Variazioni di morte e Sonno (con traduzione e cura di Vanda Monaco Westerstahl), i due protagonisti sono indicati come L’UNO e L’ALTRO, il che, a mio vedere, non significa che non esprimano un’identità, ma piuttosto non occorre loro un’identificazione. Cosicché rappresentano semplicemente ed essenzialmente due uomini nella loro propria umanità, con valore emblematico e simbolico.
Nella didascalia iniziale così scrive l’autore: «Io sono il vento si svolge in una barca immaginaria, un’illusione. L’azione è anche immaginaria, non dovrà essere eseguita, è una illusione» (corsivo dell’autore). Una didascalia che sta a dimostrare come sia la parola che campeggia ed assume quasi del tutto il compito di creare attrazione e incanto. Il resto lo si può immaginare, come d’altra parte anche lo spettatore comunque rielabora con la mente quanto vede.
D’altra parte, non essendoci una concreta azione dei personaggi, in molti lavori dell’autore norvegese il tempo della fabula è sospeso, quasi un presente eterno, una «tempiternità» direbbe Raimon Panikkar, tramite, in diversi testi, la compresenza dei personaggi e dei loro Doppi, mettendo così in scena, ad esempio, Vivi e Morti, con passaggi di intensa commozione e a volte turbamento. Così è, ancora, in Sonno, dove una coppia, reduplicandosi, rivive le varie fasi della sua esistenza apparendo assieme sia come vivi che come morti.
Come parlano questi personaggi? Potremmo rispondere che la loro lingua è “basica”: semplice, poco incline alla parola levigata, colta, piuttosto esprimente stati d’animo, pensieri, sentimenti assolutamente propri all’intera umanità. Come scritto più sopra, non interessano all’autore connotazioni di censo e di condizioni economiche, semmai, come in Io sono il vento, i personaggi rinviano ad una comunità antropologica tipica della Norvegia occidentale; come d’altronde anche la lingua che usa Fosse appartiene a quell’area geografica.
I dialoghi sono costruiti con una struttura poetica, liricheggiante, che richiama antichi modelli drammatici greco-latini, essendo le battute brevi, spesso vere e proprie, appunto, “sticomitie”.
La lingua, e il suo ritmo, nei lavori di Fosse, anche già dalla sola lettura, “incantano”: come direbbe Mariangela Gualtieri, spingono ad un affascinante «incanto fonico», che naturalmente esige dagli attori una notevole arte del dire la parola, specie se messa in versi; lo stesso autore più volte ha sottolineato che i suoi personaggi sono «voci».
Da non dimenticare sono anche determinate figure retoriche che aiutano quella sorta di attrazione magnetica che invade il “campo” d’incontro tra attori e spettatori come un’onda, innanzi tutto sonora, poi semantica. Tra le figure retoriche fanno spicco quelle della “ripetizione”, iterando alcune parole, spesso solo per ragioni fatiche, affinché i personaggi restino sempre agganciati l’uno all’altro. Tale scelta, com’è immaginabile, porta lo spettatore ad un ipnotico ascolto delle parole stesse, sempre che gli attori sappiano tenere comunque attenti il loro pubblico. A conferma didascalicamente Fosse con alta frequenza indica «breve pausa», in quanto, io credo, da musicista quale è stato da giovane, sa quanto suono e silenzio siano le due facce di una stessa medaglia, che è poi la realtà stessa, o almeno dovrebbe esserlo.
Chiudendo, sarei intellettualmente poco serio se non sottolineassi che la mia scoperta di Jon Fosse è stata tardiva, e anche supportata dall’attribuzione del Nobel, poi, nel mio caso giocano anche altri fattori, in particolare delle coincidenze di pensiero, di esperienze che la vita via via ci rende “vere”. Ora mi auguro che queste mie note spingano, per chi non lo ha fatto già, ad approfondire la conoscenza di un drammaturgo e scrittore già rappresentato, letto e tradotto in decine di Paesi: buona lettura, dunque!