Con il tema Crocevia, prosegue il viaggio di Fabrizio Crisafulli per Esercizi di memoria. Dalle cantine romane fino agli incontri più significativi, emerge un percorso segnato da oggetti emblematici. Pietre, corde e saponette che l’artista ha portato per il nostro incontro diventano il punto di partenza e di arrivo di memorie, influenze e visioni poetiche che prendono forma nell’ascolto profondo del luogo e del suo tessuto umano.
Ho cominciato tardi come regista teatrale. Avevo seguito da vicino il lavoro che si faceva negli anni Settanta nelle cosiddette “cantine romane”, il mio interesse per il teatro è sempre stato costante, ma per lungo tempo, come ho detto, mi sono occupato operativamente di altro, anche se si è trattato di esperienze che poi hanno alimentato il mio lavoro teatrale. Quando ho cominciato la mia ricerca scenica, l’ho fatto a partire dalla luce. Ho sempre pensato che la luce sia un elemento da tenere in grande considerazione in teatro. Nel 1991 ho formato un primo nucleo di compagnia con un gruppo di ex allievi dell’Accademia di Belle Arti di Catania, dove da qualche anno conducevo dei laboratori incentrati, appunto, sulla luce. Quel primo gruppo durò un anno. Con il suo primo spettacolo, Il pudore bene in vista, viaggiò molto. Ma quando ho avuto il trasferimento per insegnare ad Urbino, e sono andato via da Catania per trasferirmi definitivamente a Roma, per forza di cose si è sciolto. In un modo tutto suo, il gruppo funzionava, ma non avevamo sostegno istituzionale e divenne davvero difficile continuare. Poi, a Roma, sono arrivati incontri molto importanti per me come quelli con Daria Deflorian e poi con Giovanna Summo, che, in momenti diversi, hanno partecipato al mio percorso teatrale.
Gli oggetti che ho portato sono espedienti per aprire delle questioni. Possono evocare anche aspetti particolari del mio lavoro: vi convergono esperienze, riflessioni, influenze.
Tra questi oggetti, un sanpietrino. L’ho portato per più di un motivo. Innanzitutto, si tratta di basalto. È pietra lavica. Contiene quindi la memoria di un aspetto delle mie radici cui ho fatto prima riferimento parlando dell’Etna. È poi la pietra con la quale sono tradizionalmente rivestite le strade di Roma, la città dove a un certo punto sono venuto a vivere, e che amo molto. Evoca per me anche gli anni in cui sono arrivato qui per studiare. Era il Sessantotto, e il sampietrino veniva utilizzato come “arma” contro la polizia durante le manifestazioni. Ma lo lego soprattutto ad uno degli slogan che mi piacevano di più del “maggio francese”: Sous les pavés, la plage! Mi piaceva molto la fantasia di disselciare le strade per trovare la spiaggia. La componente dei movimenti di quel periodo che mi corrispondeva di più era quella immaginifica, quella dell’immaginazione al potere. A queste ragioni si aggiunge il fatto che, per qualche imponderabile ragione, la figura della pietra è ricorrente nel mio lavoro. Me ne sono accorto a un certo punto. Ricorre anche nei titoli. Nel 1999 ho fatto, ad esempio, un’installazione all’anfiteatro romano di Catania che si chiamava Pietraluce. Era un lavoro, per alcuni versi, simile a quello realizzato l’anno precedente al Ponte Romano di Parma, cui ho accennato prima: un lavoro rivolto a rendere la pietra infuocata, “ardente”. Ma gli esempi che potrei fare sono tanti. Del resto, nel teatro dei luoghi, si creano spesso occasioni nelle quali si ha a che fare con la pietra. Mi viene ancora in mente (anche qui la pietra è nel titolo) Una pietra sopra, un lavoro realizzato con Giovanna Summo in una zona diroccata del comune di Piansano, un paese in provincia di Viterbo, nella quale Giovanna, seduta su una sedia, entrava in una relazione sottile con una pietra di tufo, piuttosto grande e pesante, che portava “in grembo”. Con i suoi movimenti quasi la “animava”. La pietra, nel corso della sua azione, diveniva tante cose diverse. E penso a Il bianco, dello stesso anno, performance di teatro dei luoghi, creata anch’essa con Giovanna, realizzata a Volterra, in un laboratorio per la lavorazione dell’alabastro. Al centro della nostra trasfigurazione del luogo, c’erano l’alabastro e la sua polvere bianca. In Numina (2000), spettacolo-percorso realizzato alla necropoli etrusca della Banditaccia di Cerveteri, all’interno della rassegna Per antiche vie del Teatro di Roma, per la natura stessa del luogo, tutti i performer lavoravano tra le pietre. Penso, tra tutte, all’azione di Giuseppe Asaro su un gruppo di rocce, nella quale sembrava che lui stesso diventasse un’emanazione della pietra; o a quella di Alessandra Cristiani, creata sulla soglia di un sepolcro, individuata da grandi massi.
Un altro oggetto che ho portato è questa corda acustica di pianoforte. L’ho usata in uno spettacolo che si chiamava Camera Eco (2001). Era tesa dal palco alla soffitta. Quindi usava lo spazio del sottopalco come cassa di risonanza. A un certo punto le due performer “suonavano” le corde con le dita cosparse di pece greca. Essendo le corde quasi invisibili, sembrava sonassero l’aria. In realtà, invece, stavano “suonando” il palcoscenico, come fosse un grande strumento musicale. Al di là dell’uso che ne ho fatto in quella occasione, ho portato la corda perché evoca la mia idea del luogo scenico anche come luogo sonoro. Generalmente in ogni lavoro, sia che si svolga all’interno che all’esterno del teatro, cerco di mettere a frutto i rumori e i suoni che si creano nei rapporti tra i performer con lo spazio o gli oggetti, incorporandoli nella drammaturgia sonora.
Ho portato anche un sapone di Marsiglia. Anche questo è un oggetto che ho effettivamente usato in uno spettacolo: Le addormentate, creato nel 1995 con Daria Deflorian. Nel romanzo cui il lavoro era ispirato, La casa delle belle addormentate di Yasunari Kawabata, il profumo ha una notevole importanza. Il libro racconta di una particolare casa di appuntamenti in Giappone nella quale dei vecchi avventori, ormai fuori gioco dal punto di vista sessuale, pagano per dormire accanto a delle vergini nude. Le vergini sono forzatamente addormentate con un sonnifero dalla enigmatica tenutaria della casa e gli anziani clienti non devono avere comportamenti sconvenienti. È un romanzo misterioso e profondo, basato su quanto, in quella particolare situazione, succede nell’interiorità dell’anziano. Mi aveva colpito il fatto che il vecchio habitué era in grado di capire chi fosse la ragazza dal suo profumo. Per lo spettacolo decisi di infondere la scena dell’idea del profumo posizionando una costellazione di un centinaio di saponette sul muro di fondo. La saponetta mi serve qui, più in generale, per richiamare il fatto che gli odori e il profumo sono parte del sentire teatrale.
Venendo al “teatro dei luoghi”, tema immanente in quasi tutte le cose che sto dicendo, è un tipo di lavoro che consiste sostanzialmente nel considerare il luogo (inteso non solo come sito fisico, ma, più in generale, come ambito di relazioni) quale elemento generativo della creazione. In pratica, al luogo viene affidata la funzione di “matrice” che generalmente viene svolta dal testo. È un tipo di approccio per il quale è necessario mettersi in ascolto profondo della situazione e del lavoro del performer. Nel realizzare progetti di questo tipo, faccio prima dei sopralluoghi, rispetto ai quali elaboro un progetto di massima. Ma è poi il lavoro concreto sul posto quello che mi fa capire veramente come procedere. Il luogo in cui si lavora diventa, con la presenza della compagnia, un luogo nuovo. In principio osservo come ogni singolo componente del gruppo si relaziona con esso. Comincio a dargli indicazioni specifiche solo quando è entrato in una relazione diretta, personale, con il luogo; indicazioni che quindi derivano dal mio ascolto di quella relazione, e non da idee precostituite ed astratte. A volte succede anche che entrino nel lavoro persone esterne, incontrate sul posto, che vi abitano o che sono legate a delle sue vicende. Accade spesso, quando si lavora in un luogo, che si creino rapporti significativi con le persone presenti, ma non forzo mai il loro coinvolgimento nel lavoro. Avviene quando se ne crea la spinta da tutt’e due le parti. Molti anni fa, eravamo in uno spazio di Trastevere per fare una dimostrazione di lavoro sul teatro dei luoghi, che poi divenne un vero e proprio spettacolo. Vi incontrammo un’anziana signora, che cominciò a raccontarci la storia di quel posto, che in precedenza era stato una stalla e poi il covo di un gruppo terroristico. Il figlio della donna, che faceva parte di quel gruppo, era stato ucciso dalla polizia in uno scontro a fuoco. Lei, che era un’attrice, a un certo punto iniziò a raccontarci tutto, e quel luogo divenne per noi un’altra cosa. Entrò nello spettacolo, nel quale, per scelta comune, raccontava la sua vicenda in forma poetica, per frammenti, in sintonia con la nostra impostazione non narrativa, e diventò l’asse portante del lavoro.