La “Rinascita” della Compagnia Bartolini/Baronio e il “canto dell’essere” di Forugh Farrokhzād Intervista di Letizia Bernazza

Forugh Farrokhzād. Foto tratta dal web

«(…) Io sono della stirpe degli alberi. /Mi turba respirare l’aria infetta.
/ Un uccello morto mi consigliò di non dimenticare il volo./ Fine di
ogni impeto/ è giungere alla luminosa essenza del sole/ e immergersi
nella sapienza della luce. / È naturale/ che i mulini a vento
marciscano. / Perché dovrei fermarmi? / Mi stringo al petto le spighe
acerbe del grano/ e le allatto. / La voce, solo la voce, / la voce del
limpido desiderio dell’acqua di scorrere, / la voce del flusso della luce
stellare/ sulla superficie femminea della terra, / la voce che
concepisce il senso/ e spande il pensiero condiviso dell’amore. / La
voce, la voce, / è solo la voce che resta».

                                                                                                        Forugh Farrokhzād, È solo la voce che resta (1)

 

Non poteva trovare collocazione migliore il nuovo lavoro della Compagnia romana Bartolini/Baronio. Il prossimo 16 dicembre, UNA RINASCITA. Appunti su Forugh Farrokhzād verrà presentato nell’ambito della 18esima edizione di Teatri di Vetro, Festival delle Arti Sceniche Contemporanee, con la direzione artistica di Roberta Nicolai. Nella “cornice concettuale” di Oscillazioni, una delle sezioni in cui anche quest’anno si declina parte del fitto programma di Teatri di Vetro, Tamara Bartolini e Michele Baronio ci conducono alla scoperta di Forugh Farrokhzād (Teheran, 1934 – Bagheri Kamasaei, Teheran, 1967) figura iconica della letteratura persiana moderna. Fluttuano, oscillano gli “appunti” dei due artisti proprio com’è nella filosofia (la chiarisce molto bene Roberta Nicolai nel catalogo del Festival) di Oscillazioni, lasciandosi «(…) muovere dalla parte che manca». Tamara e Michele si mettono all’ascolto dei versi della poetessa, attraversano la sua scrittura intrisa di rara sensibilità, ricca di immagini potenti e intrecciano la sua voce con le tante tessere-frammento che compongono il mosaico dei loro spettacoli, reading, laboratori. In questa Rinascita, il grido di libertà lanciato da Forugh Farrokhzād contro violenze e soprusi (non soltanto nell’Iran di ieri e di oggi) è anche una feritoia di speranza attraverso cui riconciliarsi con il mondo, nonostante tutto. Allora, «Ecco» – per dirlo con le parole di Roberta Nicolai – che «l’oscillazione continua a muoversi. Sulle superfici e negli abissi la sua attuale possibilità d’azione».

Confrontarsi con l’opera di Forugh Farrokhzād vuol dire entrare in un universo complesso, nel “canto di un essere” dove ciò che conta è l’univocità della persona, sia essa donna o uomo, calata nel flusso incessante della vita. Lo sottolinea con precisione Maria Grazia Calandrone nella sua prefazione alla raccolta Tutto il mio essere è un canto (2) che scrive: «Farrokhzād torna alla coscienza primordiale collettiva e ai suoi archetipi simbolici e mitologici, toccando le vette di un lirismo visionario, onirico che rintraccia il sovrasensibile nelle radici dell’esperienza sensibile». Che cosa ha significato per voi “incontrare” Forugh Farrokhzād?

L’incontro con una parola poetica che arriva fino a noi e oltre, che non ha paura di dire la ferita del mondo ma anche la sua luce, che ci scuote fin nelle viscere e che ci ricongiunge alla terra, alla casa mondo che è dentro e fuori di noi. È anche l’incontro con il coraggio e l’urgenza, con il desiderio di libertà che c’è in ogni essere umano e che non può essere fermato, che resta come solo la voce resta, così come scrive Forugh.
L’incontro con una vita che si fa tutt’uno con la poesia, con l’arte, con il tradurre il mondo in tutte le forme che esplodono dentro di noi. Ancora, significa l’incontro con la sua poesia che tutto include in una onestà sconcertante che raggiunge vette di comprensione dell’umano che ci commuovono e che risuona profondamente nella ricerca che da anni portiamo avanti. Grazie all’incontro con la poesia di Forugh, continuiamo a cercare a partire dalle parole che hanno abitato le nostre produzioni artistiche in questi anni: “casa”, “libertà”, “voce”. A cui aggiungiamo la parola “spaesamento”, condizione universale che tutte e tutti abitiamo, oggi più che mai e di cui anche Forugh parla nelle sue poesie. Forugh ha superato i confini della lingua, parla dell’umano, anche il teatro. Noi non potevamo che incontrarla per continuare a cercare in questo percorso che ci vedrà impegnati fino al 2026.

Foto delle prove di “UNA RINASCITA. Appunti su Forugh Farrokhzād”

Il percorso, drammaturgico e attoriale, della Compagnia Bartolini/Baronio è guidato da sempre da alcuni temi che ritornano e che costituiscono una sorta di Stella Polare la cui costellazione è disseminata di parole-chiave-luminose necessarie a orientare gli spettatori e le spettatrici al nucleo, al cuore, della messinscena. La “poetessa del peccato” – così era stata apostrofata Forugh Farrokhzād dopo essersi ribellata alle convenzioni sociali-religiose che avrebbero voluto relegarla unicamente nell’ambiente domestico, reprimendo la sua vocazione letteraria – quanto ci dice sul nostro mondo e sui nostri tempi, sulla libertà e sull’autodeterminazione?

Ci dice tanto, ci dice più di quanto possiamo immaginare. Da una parte per quello che ha significato nel suo Iran, per il segno profondo che ha lasciato nella cultura del suo Paese e per il contributo che ha dato al processo di autodeterminazione di tante donne – tra cui anche a Sara, la donna iraniana che è coinvolta nel nostro progetto – e per aver collaborato alla presa di coscienza anche di tanti uomini. Forugh è stata forse tra le prime donne ad alzare la voce, a risvegliare la coscienza contro un mondo patriarcale misogino e maschilista che la voleva comunque inferiore e sottomessa anche nella cerchia di intellettuali di cui faceva parte. Lei ha sicuramente aperto una strada. E ancora oggi ci dice tutto quello che ancora c’è da fare e che in ogni parte del mondo i movimenti transfemministi ed ecofemminismi stanno portando avanti. La lotta contro il patriarcato è anche la nostra, è qui, nell’educazione delle giovani donne e di tutta la società, è in ogni azione che abbracciamo nelle nostre vite personali, nei posti di lavoro, nell’arte. Forugh ci tiene sveglie, ci aiuta a ritrovare la luce come ci ha raccontato una delle persone intervistate in questi giorni. Quando Forugh scrive: «Il mio intero essere è un versetto oscuro / che nel ripeterti al suo interno ti condurrà all’alba di eterne crescite e fioriture. / Io ti sospiro in questo verso, ah / in questo verso ti unisco all’albero, / ti unisco all’acqua, ti unisco al fuoco», ci guida nella costruzione di un nuovo viaggio e ci racconta di come la sua vita troppo breve sia diventata metafora di una condizione universale, di una testimonianza di resistenza attraverso l’arte, di un pensiero che anticipa tante delle questioni legate al corpo – non solo delle donne – e ad una nuova ecologia delle relazioni umane e del dialogo con la natura: c’è un uccello in gabbia (come lei si definisce) che cerca disperatamente una casa senza sbarre, un corpo finalmente libero: «Avrei voluto nascere in una foresta», dichiara, «e accoppiarmi con la natura». 

UNA RINASCITA. Appunti su Forugh Farrokhzād è il vostro primo studio intorno alla vita e agli scritti della poetessa ed è la tappa iniziale del progetto più complesso Io parlo dai confini della notte. Il titolo riprende lomonima antologia curata da Domenico Ingenito per i tipi di Bompiani (3). Per voi che cosa vuol dire rinascita” e che cosa parlare dai confini della notte”?

Non si nasce una sola volta. Abbiamo la possibilità di rinascere ancora e ancora, di non rimanere chiusi dentro identità costruite da altri o anche da noi stessi per condizionamenti culturali o sociali che sono radicati dentro di noi. L’identità non è statica, si muove e si trasforma, ci piace pensarla così. Non è e non deve essere una gabbia. Quante cadute e quante possibilità di trovare nuove forme di vita che ci assomigliano, che ci parlano di quello che siamo diventati o di quello che sentiamo dentro.

Foto di Manuela Giusto dallo spettacolo “Passi”

Nello spettacolo PASSI parlavamo proprio di questo, dei passi dopo la caduta, della possibilità di una seconda nascita e lo facevamo da una notte oscura: nera era la scena, onirico era il mondo che evocavamo. A volte è proprio da quel confine buio, da quella crepa, da quella ferita che inizia la lingua del teatro. Nel laboratorio con Asinitas, dove abbiamo incontrato Sara e Zara e tante altre persone belle e indimenticabili, ma anche nelle altre esperienze fatte in questi anni, con le ragazze e i ragazzi di Ostia; con gli adolescenti di Matemù; nei laboratori Biografie/Ritratti a carrozzerie n.o.t., ci sembra sempre di ri-nascere. Aveva ragione Luca Lotano quando al nostro primo incontro del viaggio su La voce umana ci disse: «la cosa più importante che potrà accadere tra di noi alla fine di questo percorso sarà di uscirne trasformati» È accaduto. Siamo nati ancora una volta. Si torna indietro per andare avanti, come nel finale del nostro Dove tutto è stato preso in cui tornavamo indietro a cercare le parole della nascita, quelle senza più nessuna forma, solo suono, «le parole che ci salveranno tutte e tutti», dicevamo.

Foto di Carolina Farina dallo spettacolo “La voce umana”

Dentro il suono di quella voce che non ricordavamo più di avere, da quel confine, si torna per trovarsi, per ritrovarsi anche, e per potersi salutare. È dentro quell’oscurità a cui Forugh dà corpo nelle sue poesie che possiamo guardare la luce, da quella notte che tanto ci fa pensare a Yalda, la notte più lunga dell’anno che in Iran si festeggia non per la sua oscurità ma per la luce che porta con sé. Da quella notte in cui ci guidano le stelle, cantava una canzone di resistenza, da cui si rinasce per salutare ancora il sole. Così si esprime Forugh: «saluterò la terra, il suo desiderio ardente/ di ripetermi e riempire di semi verdi / il suo ventre infiammato, / sì, la saluterò / la saluterò di nuovo. / Arrivo, arrivo, arrivo, / con i miei capelli, l’odore che è sotto la terra, / e i miei occhi, l’esperienza densa del buio. / Con gli arbusti che recisi nei boschi oltre il muro. / Arrivo, arrivo, arrivo, / e la soglia trabocca d’amore / mentre aspetto quelli che amano / e la ragazza che è ancora lì, / nella soglia traboccante d’amore, io / la saluterò di nuovo». Ci teniamo a dire che Teatri di Vetro, con la direzione artistica di Roberta Nicolai, ospita i primi materiali, i primi appunti, i primi semi, i passi incerti ma pieni di fervore di questo nuovo viaggio. È nello spirito del Festival accogliere e dare fiducia anche a progetti che devono ancora nascere e/o rinascere, creature che si sono appena affacciate alla vita. E anche Roberta Nicolai così ci invita a guardare la scena dai confini della notte, da quel luogo di mezzo, da quella frontiera, da quell’ombra che viene alla luce, da quella caduta dentro la vita che è l’arte del teatro e di chi lo fa.

Quale è il filo conduttore che lega nel vostro lavoro Forugh Farrokhzād e Sara Ghorbanian Matlub, anche quest’ultima una donna iraniana, conosciuta nel 2023 nel corso del laboratorio di teatro comunitario con rifugiati e richiedenti asilo di Asinitas giunto all’esito scenico de La voce umana?

Nel 2023 nell’esperienza indimenticabile con Asinitas, in quel laboratorio di teatro comunitario che ci ha condotti a La voce umana, c’erano due donne iraniane, Sara e Zara. Ricordo ancora quando il primo giorno di laboratorio abbiamo chiesto ai partecipanti: «cosa c’è dentro la tua voce?» e Sara ha risposto «c’è la voce del mio popolo». Non lo dimenticheremo mai. Da allora Sara e Zara ci hanno accompagnato nel loro mondo di bambine, nate nel clima post rivoluzione, cresciute durante la guerra, diventate donne in un contesto di parole vietate, di veli, di violenze e di ingiustizie, ma ci hanno anche invitato a guardare la bellezza e l’eleganza di un mondo fatto di poesia, di fiori e di melograni, di libri e di gentilezza, di danze, lotte e canti, di arte e di una cultura antica di cui è intrisa ogni cosa. Nelle prime prove, mentre costruivamo la drammaturgia del nostro nuovo lavoro, Sara ci racconta proprio il suo incontro con le poesie di Forugh, ci rivela che leggerla le ha dato il coraggio di vivere davvero, di pronunciare le parole vietate, di cercare la propria libertà. E poi ci interroga e si interroga su cosa significhi sentirsi senza casa, lontana dalla sua lingua, dalla sua terra, del dolore profondo che si porta dentro e anche di come l’incontro con il teatro – e dunque con la poesia – a volte ti può salvare la vita.

Foto di Margherita Masè dallo spettacolo “Dove tutto è stato preso”

UNA RINASCITA. Appunti su Forugh Farrokhzād è, dunque, una storia che contiene storie o, forse, la Storia che riverbera nelle crepe di un racconto dove si incrociano i destini di chi non ha più “voce”, “casa”, “libertà”, i tre capisaldi dei vostri Esercizi sull’abitare e Dove tutto è stato preso, Josefine, La voce umana?

Le storie che stiamo raccogliendo sono testimonianza della memoria e delle sue trame, del suo desiderio trasformativo e generativo, che è un esercizio di restituzione del rimosso, il desiderio di dare parole alla notte che c’è dentro ogni persona per tornare ad illuminare gli angoli del mondo da abitare. L’intreccio con la storia e con la lingua di Farrokhzād sulla scena è la ricerca del corpo come casa – e dunque anche delle sue parole – come dimora interiore di una lotta di resistenza attraverso l’arte che si traduce nei versi rivoluzionari di Forugh, anticipatrice delle battaglie di libertà in Iran. La questione del corpo e della libertà, ispirata ai versi di Forugh, diventa la possibilità per noi di fare un nuovo percorso che non è altro che proseguire il viaggio dei lavori che hai citato, un viaggio interiore anche, per cercare la voce di un abitare profondo dentro se stessi e come parte attiva della società: “Mi sono incamminata da sola. / Come una bambina che si perde in una foresta. / Mi sono diretta in ogni direzione / per fissare ogni cosa e lasciare che tutto mi catturasse, / finché non sono arrivata a una sorgente / in cui ritrovare non solo me stessa ma anche tutte le esperienze della foresta.” È da qui che partiamo per provare a farci delle domande, a farle alla comunità che il teatro crea. Se sentirsi a casa significa essere liberi, cosa accade quando non siamo liberi? Di cosa parlano i nostri corpi se non sono più a casa, se il corpo stesso diventa una prigione (Prigioniera è la prima raccolta della poetessa uscita a metà degli Anni Cinquanta)? Il nostro corpo è casa, ma se il corpo viene dis-abitato dalla violenza di imposizioni familiari, culturali, religiose, economiche e politiche, come ri-abitarlo, come liberarlo? A partire da queste domande, cerchiamo il corpo e le parole di chi si sente in una costante forma di esilio, un Atopos senza luogo, senza casa e dunque senza corpo, né qui né lì, in quel giardino della terra raccontato da Forugh. È dentro tale intreccio di storie nella Storia che il nostro teatro viene alla luce e quando Forugh rievoca il suo documentario La casa è nera, girato nell’ospedale di lebbrosi a Bababaghi nel 1963, per noi sta parlando anche del senso profondo del perché continuiamo a fare teatro: «Questa è la descrizione di una società chiusa e rigida», scrive, «l’immagine del vivere invano, da emarginati, come scarti. Anche le cosiddette persone sane in una società apparentemente sana al di fuori del lebbrosario possono soffrire degli stessi sintomi, nascosti nelle profondità del loro animo».

Non parlo di un brusio atterrito nel buio / parlo del giorno e delle finestre aperte / e dell’aria fresca / e delle cose inutili da ardere nel fuoco / e della terra feconda di una nuova semina, / della nascita, dell’eterno, dell’orgoglio (4). Nel vostro lavoro c’è la stessa speranza cui anela nei suoi versi con una forza fervida, quasi impaziente, Forugh Farrokhzād?

«Il teatro è come un filo a cui mi aggrappo perché mi sta salvando la vita» ci ha detto Sara alla fine del laboratorio con Asinitas. A volte anche noi lo sentiamo un po’ così. Non ne possiamo fare a meno come la topolina di Kafka, come la nostra Josefine che ci ha invitato ad uscire fuori dal teatro per ritrovarlo nell’incontro con il mondo, per continuare a “cantare” e chiederci cos’è la libertà. Vogliamo fare teatro, nonostante le tante contraddizioni e i numerosi impedimenti. Sentiamo fortemente il senso di condivisione del teatro; crediamo nella possibilità di tornare ad essere una comunità; ci piace raccontare le storie, reinventarle, farle rinascere, a proposito di Una Rinascita. Per farlo, per sentire che il teatro è necessario, che ha ancora un senso, adesso più che mai, sentiamo che bisogna provare a cucire il filo tra le pratiche sociali e quelle artistiche. Quando accade sentiamo che accade anche il teatro. Cerchiamo di fare spazio nello spazio – proprio come recita il titolo della tesi di laurea che Lisa Lippi Pagliai (la giovane attrice che ha partecipato al progetto insieme a Sara) – ha dedicato al nostro lavoro: Un teatro che fa spazio. Lisa l’abbiamo coinvolta per la sua bravura e sensibilità, per la sua dedizione, perché cercavamo un altro filo da tessere che avesse delle risonanze con le domande che ci stiamo ponendo e con Forugh. Lisa porta quel filo, un altro pezzo di storia che riguarda un’altra generazione, un altro corpo di donna, altri condizionamenti culturali, economici, sociali, un’altra storia di ricerca di libertà, ma anche un’altra storia di radici e di case che non ci sono più, e tutto questo diventa un filo da intrecciare con Sara e con noi. Geografie e tempi diversi stretti nella stessa condizione di spaesamento, del non sentirsi a casa da nessuna parte.
La forza della scena è ancora la possibilità dell’umano e dell’incontro.

Foto di Margherita Masè. Sara Ghorbanian Matlub e Zara Kian nello spettacolo “Traccia 2. La voce umana” (Teatri di Vetro, 2023)

Note
1) Forugh Farrokhzād, a cura di Faezeh Mardani, È solo la voce che resta, Riccardo Condò Editore, Pineto (TE), 2018, pp. 256.
2) Forugh Farrokhzād, a cura di Faezeh Mardani, traduzione di Faezeh Mardani e Francesco Occhetto, prefazione di Maria Grazia Calandrone, Tutto il mio essere è un canto, Edizioni Lindau, Torino, 2023, pp. 256.
3) Forugh Farrokhzād, a cura di Domenico Ingenito, Io parlo ai confini della notte. Tutte le poesie, Bompiani, Milano, 2023, pp. 800.
4) Forugh Farrokhzad, La strage dei fiori, cura, introduzione, traduzione e note di Domenico Ingenito, Edizioni Orientexpress, Napoli, 2007, pp. 82.

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