Si chiamano Gruppo della Creta. Sono una formazione nata nel 2015 composta da professionisti under 35. I quindici artisti, organizzatori e tecnici del collettivo lavorano insieme con l’obiettivo di sperimentare i nuovi linguaggi della scena attraverso un lavoro “comunitario” di creazione cui sono chiamati a partecipare attivamente anche gli spettatori. Il “gioco del teatro” è il superamento stesso di ogni limite e confine: una tessitura a maglie larghe che invita ad entrare e ad uscire dal percorso tracciato dagli attori oltre uno spazio e un tempo definiti. Proprio come la manipolazione della creta, la forma delle messinscene è in continua trasformazione sebbene sia sostenuta da un solido apparato drammaturgico. Ne è un esempio La stanza presentata lo scorso 20 dicembre al TeatroBasilica, un luogo abitato dal Gruppo della Creta dal 2019. Dal sodalizio tra l’attrice Daniela Giovanetti, il regista Alessandro Di Murro e la supervisione artistica di Antonio Calenda, il Basilica è ormai diventato un punto di riferimento della scena contemporanea non soltanto romana.
In occasione del debutto de La stanza dal romanzo di Julio Cortázar Rayuela. Il gioco del mondo, abbiamo incontrato due “voci” del Gruppo della Creta: Alessandro Di Murro (regista) e Tommaso Emiliani (drammaturgo).
Il vostro progetto A SUR quanto e come si ispira alla rivista “SUR” fondata nel 1931 dalla “mecenate”, editrice e scrittrice argentina Victoria Ocampo alla quale l’amico fraterno Jorge Luis Borges riconosceva, con immensa gratitudine, il profondo significato del suo lavoro nutrito da un pensiero libero e cosmopolita?
Victoria Ocampo cercò di perseguire un rinnovamento estetico e costruire un’identità artistica capace di dialogare con il mondo. Usò la rivista “SUR” per dare voce a una cultura argentina divisa tra una tradizione autoctona ormai marginalizzata, quella del sud del mondo, e le influenze migratorie europee.
Anche il nostro progetto A SUR ha voluto creare un ponte: tra il nostro sentire e la letteratura argentina. L’obiettivo è stato quello di rievocare i mondi creati dal Realismo Magico argentino e allo stesso tempo di riflettere sulla nostra posizione nel mondo: marginale, periferica, provinciale. E, lontano da mire di rinnovamento estetico o culturale, di catturare nel piccolo del nostro collettivo, il Gruppo della Creta, un linguaggio artistico riconoscibile.
Come “SUR”, il nostro progetto riflette sul caos contemporaneo, raccogliendo l’eredità di quel Novecento che, per Ocampo, segnò la fine delle certezze ideologiche, aprendo di pari passo la strada a una modernità che definiva come la tensione tra tradizione e rinnovamento, tra identità locali e dialogo globale.
A SUR si snoda in una trilogia che avete portato in scena dal 2022 al 2024: Finzioni, Beati voi che pensate al successo noi solo pensiamo alla morte e al sesso e La stanza. Un percorso che va da Borges a Cortázar passando per Wilcock. Quali sono state le opere dei tre autori su cui vi siete concentrati maggiormente per imbastire l’impianto drammaturgico delle messinscene?
Sono tutti autori che hanno rifiutato il romanzo come forma di espressione e che hanno utilizzato tale strumento solo nella sperimentazione che sentivano necessaria. Ne sono esempio la Rayuela di Cortázar (definito spesso contro-romanzo) o I due allegri indiani di Wilcock. Da questo è seguita inevitabilmente la necessità che il punto di partenza fosse il racconto. Le raccolte Finzioni e L’Aleph di Borges fondano i temi del labirinto e del sogno che, insieme alla tensione tra realtà̀ e immaginazione, sono stati guida dell’impianto drammaturgico. Il concetto di rete espresso ne La biblioteca di Babele e lo smarrimento che si prova nel leggere La casa di Asterione, Il giardino dei sentieri che si biforcano o Tlön sono esempi della suggestione che l’autore ha suscitato nel nostro lavoro. Con Beati voi ci siamo invece ispirati a quasi tutte le opere di Juan Rodolfo Wilcock: l’intervista iniziale si rifà al poemetto La parola morte, ma ci sono riferimenti anche a Il caos e a Il libro dei mostri. Saggi come Il reato di scrivere e il concetto di “sprezzatura”, riportato nella post-fazione da Edoardo Camurri, hanno dato la direzione per la costruzione di una messinscena intima e dissacrante, dove il divano è diventato simbolo della fragilità̀ generazionale. Infine, ne La stanza, il riferimento è stato Rayuela di Julio Cortázar. La sua struttura aperta, che costantemente incita il lettore a partecipare al “gioco del mondo”, ci ha condotto a esplorare un dialogo tra reale e virtuale, sospeso nel tempo e nello spazio, dove il pubblico viene coinvolto attivamente nel gioco di riconoscere un’identità fino al dilemma finale che tale tema porta con sé.
I tre spettacoli ruotano intorno ad un macrotema – ovvero «a quell’impossibile e generosa avventura dell’umanità», per dirlo con le parole dello stesso Borges – che si dipana attraverso un linguaggio in cui si innestano fantasia e metafisica, finzione e realtà, grottesco e assurdo, diversità e follia. Quanto questi opposti e il loro frammentario strabordo sono necessari per voi nella costruzione del “gioco” del teatro?
In Beati voi affermiamo esplicitamente che il nostro è un lavoro sui confini, sui territori di transito. Non stiamo indagando uno spazio definito ma cerchiamo di abitare il limes, il confine. Tutte le categorie da te elencate sono quelle da cui cerchiamo una fuga nel nostro lavoro teatrale e nella nostra vita quotidiana. Sfuggire da ogni possibilità di ridurre l’avventura dell’umanità ad alcune coordinate statiche.
Questa volontà si è trasformata in un linguaggio scenico concreto in cui tutto ciò̀ che accade in scena agli attori è sottoposto alla “fisica dell’instabilità”. Così il nostro minotauro, Lorenzo Garufo, esce dal teatro e percorre le strade della città in Finzioni, in Beati voi le domande sulla morte non sono fissate ma variano di sera in sera e nella stanza di Julio Cortázar il finale stesso è affidato alla scelta che faranno gli spettatori. Questi sono alcuni elementi, forse i più̀ evidenti, del tentativo di vivere il rischio di cadere, il tentativo di costruire un teatro vivo, anche solo nell’errore.
Borges ci ha indicato questo percorso e speriamo che il nostro lavoro sia stato fedele al suo insegnamento.
Quali sono le fasi portanti del processo di creazione dei vostri spettacoli? Si tratta di un lavoro collettivo cui partecipano tutti i componenti della compagnia?
Tutti i nostri spettacoli nascono da una comunità di persone che si ritrova dentro uno spazio concreto con il desiderio di esprimere la propria visione del mondo.
Da una parte c’è il Gruppo della Creta che è un collettivo di persone, tra cui attori, autori, registi ma anche tecnici, organizzatori e soprattutto tanti amici. Tutti diventano parte di un progetto, lo sostengono e lo nutrono durante i mesi di prova.
Alcuni recitano o scrivono il testo, partecipando in modo attivo, mentre altri sono ignari di partecipare alla scrittura di uno spettacolo, magari hanno visto qualche prova aperta o sono intervenuti nelle nostre lunghe chiacchierate. E poi ci sono anche coloro che lavorano dietro le quinte, i professionisti che trovano modalità̀ per finanziare o comunicare il progetto durante il lungo processo di realizzazione di uno spettacolo.
Tutte queste persone, giovani e meno giovani, sono lo strano organismo che si chiama Gruppo della Creta. Una comunità̀ che vive un processo di elaborazione artistica all’interno di un luogo concreto: il TeatroBasilica, la nostra casa. Il Basilica è sia lo spazio dove concretamente proviamo i nostri spettacoli – dalle prime riunioni sui progetti alle lunghe giornate di prove fino ai debutti – sia, e soprattutto, lo spazio dov’è possibile sperimentare l’incontro tra tutte le diverse anime del Gruppo della Creta.
Non definirei il nostro un lavoro collettivo quanto un lavoro di comunità̀. Ci teniamo moltissimo a questo nostro modo di vivere il teatro. Forse è il motivo stesso per cui facciamo teatro.
Ne La stanza ispirata a Rayuela. Il gioco del mondo di Julio Cortázar che avete presentato lo scorso 20 dicembre al TeatroBasilica di Roma c’è una relazione con il pubblico particolarmente interessante. Gli attori non solo interagiscono direttamente con coloro che prendono parte alla performance (a intervalli di circa trenta minuti, entrano in sala sei persone alla volta), ma stimolano l’interazione tra gli stessi con la modalità spiazzante del tentativo di decifrare chi sia il Jack umano e chi il Jack chat bot. Che ruolo ha, o auspicate debba avere, il rapporto attore- spettatore nelle vostre messinscene?
Far partecipare gli spettatori al nostro spettacolo è la conseguenza diretta del discorso che facevo prima.
La stanza di Julio Cortázar è il tentativo di rendere anche gli spettatori parte della nostra comunità e quindi partecipi della nostra scrittura comunitaria.
L’altra sera in teatro, durante La stanza di Julio Cortázar, è stato straordinario vedere gli spettatori partecipare al nostro gioco e poi rispondere al questionario, bere prima un bicchiere di vino e poi aspettarci per confrontarsi su ciò che avevano visto. Perché secondo noi non si tratta tanto di rendere lo spettatore attivo o lo spettacolo interattivo ma di far sentire lo spettatore accolto in uno spazio differente.
È questo di cui abbiamo bisogno oggi: di spazi comunitari attivi e “intelligenti”. Il TeatroBasilica, con la comunità̀ che lo vive, è uno di questi spazi. Ci auguriamo che ne nascano altri a Roma.
Nell’ottica del “coinvolgimento”, si svilupperà il nostro prossimo progetto in collaborazione con l’autore Pier Lorenzo Pisano che si intitolerà Nelle puntate precedenti. Per ora è presto parlarne, ma spero che avremo modo di farlo in futuro.