Geppi Di Stasio, commediografo, regista e attore ha voluto rendere un tributo scenico a Massimo Troisi scrivendo: Mo’ me lo segno, un lavoro teatrale di “assemblaggio” realizzato tra realtà e ispirazione intuitiva, tra fatti concreti e incontri impossibili e costruito da considerazioni, dialoghi, poesie e canzoni.
Di Stasio nelle sue note di regia afferma di essersi sentito quasi in dovere di realizzare questo omaggio a Troisi in quanto l’aver abitato: «… per quasi trent’anni a San Giorgio a Cremano, il paese in cui è vissuto ed è sepolto Massimo e il conferimento, nel 2014, del “Premio Troisi” alla carriera, [è stata] una grande gratificazione che andava ripagata col massimo dell’amore possibile … e il Massimo è Troisi».
Una scena scarna, un pianoforte, quattro leggii, due pedane, quattro quinte, un attaccapanni. Una scenografia dai toni chiari, tra il bianco ghiaccio e il color panna, che riesce a porre in risalto i quattro interpreti della pièce (Carlo Badolato, Geppi Di Stasio, Roberta Sanzò e Alida Tarallo), accompagnati dall’imprescindibile presenza del pianista (Emiliano Federici), è tutto ciò di cui hanno bisogno i nostri performers (il termine di attori sarebbe riduttivo) per costruire l’ambientazione in cui si svolge la rappresentazione.
Ci troviamo, forse, in paradiso, oppure su di una nuvola o, anche, in un’utopia, quel non luogo dove le eteree anime dei poeti e degli artisti possono discutere di quella visione “altra” della realtà che solo gli aedi possono intuire, quell’oltre la siepe di leopardiana memoria. Qui agiscono le figure di Massimo Troisi (Geppi Di Stasio) attore e regista di San Giorgio a Cremano e di Pablo Neruda (Carlo Badolato), pseudonimo di Ricardo Eliécer Neftalí Reyes Basoalto, poeta cileno insignito del premio Nobel per la letteratura nel 1971.
Nella vita i due uomini non si sono mai incontrati e, quasi certamente, Neruda non ha mai sentito parlare di Troisi considerato che il primo è deceduto quando il secondo ancora non aveva raggiunto una, sia pur minima, notorietà artistica. L’attore italiano, invece, con la figura del poeta si è dovuto, massivamente, confrontare quantomeno per la realizzazione del suo – ultimo – lavoro cinematografico: Il postino (del 1994) di cui terminò le riprese poche ore prima di morire.
La pellicola narra dell’incontro, nel 1952, di un giovane, addetto alla consegna della corrispondenza, col grande poeta esiliato in una piccola isola dell’Italia meridionale. In realtà il romanzo del 1984, da cui è tratto il film, Ardiente paciencia, el cartero de Neruda (in Italia Il postino di Neruda), scritto da Antonio Skármeta, è ambientato nell’isola Negra, in prossimità delle coste del Cile, e si svolge nel 1969.
In Mo’ me lo segno i dialoghi tra i due toccano gli argomenti più disparati.
Neruda sembra interroghi il timido, schivo, introverso Troisi al fine di rendere espliciti i lati più reconditi della sua anima. Chiede della famiglia, della malattia che lo ha tormentato fin da ragazzo (per poi causarne il decesso), dei suoi sogni, della carriera artistica e della sua innata ironia. L’unica vera arma di difesa del sangiorgese, sia nella vita sia sulla scena, contro l’impenetrabilità delle cose terrene.
Il cileno cerca di comprendere anche quale sia stata l’educazione sentimentale del comico proponendogli – a confronto – due “stereotipi” dell’universo femminile: la donna del Nord (Roberta Sanzò), sessualmente e culturalmente libera, volitiva, “mitologicamente” bionda e quella del Sud (Alida Tarallo), mora, meno indipendente, dotata di una sensualità passionale e forte ma “nota” e, quindi, più rassicurante.
Si cercano, poi, i punti di contatto che hanno accumunato, nell’esistenza in vita, i due artisti: il mare, l’essere figli di ferroviere, l’amore per la poesia e, come già accennato, l’amore per le donne.
Per ottenere le risposte a queste domande, in scena, si recita, si declamano poesie, si discute sul valore delle parole e, ovviamente, sul concetto di metafora (argomento trattato ne Il postino) ma soprattutto si canta perché le canzoni risultano essere il magico filo rosso che tiene unita tutta la rappresentazione. Tra i tanti brani, sia italiani che stranieri, molti sono quelli composti da Pino Daniele, altro grande amico di Troisi e altro rappresentate di quel Pantheon di artisti partenopei allontanatisi troppo presto dalla terra per non tramutarsi in mito.
Mo’ me lo segno è uno spettacolo pieno di romanticismo e, a tratti, anche commovente. Il sorriso scaturisce con intelligenza dalle citazioni e dalle riflessioni proposte dagli attori perché, per comprendere il significato del lavoro, utilizzando una delle battute declamate in scena: «occorre decidere se si è pubblico o artisti». Chi nella vita è “pubblico” infatti, fermo restando il suo diritto di criticare, ha l’obbligo, derivante dalla passività del ruolo, di osservare per cercare di percepire il messaggio che gli “artisti” hanno il dovere di portare all’attenzione dei primi per convincerli della bontà delle loro azioni.
La prima assoluta, al Teatro delle Muse di Roma, nella serata dedicata alla festa degli innamorati, ha mostrato quanto il teatro italiano sia ancora in grado di proporre interessanti novità non solo (e non per forza) rivolgendo lo sguardo alle avanguardie culturali. La messa in scena – asciutta e gradevole, disturbata soltanto da qualche sbavatura nel canto dovuta, probabilmente, alla tensione emotiva nella sera del debutto, assieme a una sapiente ripartizione del tempo concesso ai dialoghi, alle poesie e alle canzoni – ha permesso agli spettatori di trascorrere una piacevole serata senza annoiarsi e con la sensazione di aver arricchito (o rinverdito) le proprie conoscenze sul grande Massimo Troisi, ma anche sul superbo Neruda.
Mo’ me lo segno
di Geppi di Stasio
con Geppi di Stasio, Roberta Sanzò, Alida Tarallo, Carlo Badolato
pianoforte e arrangiamenti Sergio Colicchio e Emiliano Federici
regia di Geppi di Stasio
aiuto regia Daniela Scotti
foto di scena Sergio Roca
Teatro delle Muse, Roma, dal 14 febbraio al 3 marzo 2019.