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Una distesa uniforme di terra, un po’ di oggetti a puntellare la scena – lavatrice, cyclette, poltrona, cassapanca- che suggeriscono una ripetitività annoiata di gesti e abitudini, una figura esile e diafana che si aggira spaesata, in cerca di un senso, forse di una stabilità.
È quello che gli spettatori vedono mentre prendono posto in sala. Si sta per assistere ad Anna Cappelli, l’ultimo testo di Annibale Ruccello, un monologo in forma ellittica che racconta una storia minima di infelicità e abbandono. La vita al ribasso di una giovane donna impiegata nella pubblica amministrazione di una cittadina di provincia che però non è la sua, divisa tra la cattiva accoglienza nella casa di una scorbutica signora e la costante minaccia che la sua stanza nella casa di famiglia venga destinata alla sorella. Nulla più sembra appartenerle, nulla è suo, propriamente suo, tutto è precario, esposto alla volontà e ai capricci altrui. Signora, padre, sorelle, e infine anche l’uomo nel quale aveva cercato riparo e riposto il futuro. La lascerà sola anche lui e, dopo avere permesso che l’illusione di essere amata diventasse realtà, manda tutto in frantumi insieme alla casa dove la donna aveva ormai attecchito come una pianta perenne.
Una condizione, quella della precarietà, dell’inganno, del sentimento tradito e del possesso violato, che Ruccello restituisce con la profondità e la delicatezza di chi ha ben compreso che le cose e le case possono essere anima, possono custodire i travagli e le gioie di chi le ha abitate, toccate, vissute: non soltanto ricordi ma sensazioni vive, in atto, che continuano a ferire o consolare. Che ti permettono di reggerti in piedi, perché quando stai per cadere c’è qualcosa là fuori che è pronto a sorreggerti. Là fuori, non soltanto dentro di te, in qualche benevola specie di chakra che può anche darsi che da qualche parte risieda ma intanto tu senti il vuoto che cresce e che si prende tutto il tuo spazio.
Infatti, Anna barcolla. Trascina i piedi scalzi, scruta, annusa, sbocconcella del pane e provoca la signora che rifiuta il suo cibo.
Anna è interpretata da Valentina Picello: in modo superlativo. Un animale selvatico in forma di femmina che sa essere sensuale e vogliosa come una gatta in calore, lucida e rigorosa come chi ha in serbo un indifferibile progetto di redenzione, folle come chi parla a sé stessa per meglio rivolgersi agli altri e si rivolge agli altri per dire meglio a sé stessa.
Picello fa di questa povera donna una creatura agita da una volontà di riscatto che legittima qualsiasi azione pur mantenendo intatta l’innocenza un po’ ispida e i modi sguarniti. Mentre scivola da una posizione all’altra, da una postazione all’altra della scena evoca situazioni e luoghi differenti, chiama dentro i personaggi citati e li fa vivere attraverso l’ininterrotto flusso di ellissi, respiri, gesti accennati, monosillabi e reiterazioni che quasi paiono litanie, azioni in-pertinenti che disdicono la ripetitività mal subita e raccontano bene di dissociazione e malessere. La borraccia tirata fuori dal cestello della lavatrice e portata alla bocca, la terra nei capelli, ravvisata con sorpresa.
La regia, originalissima, di Claudio Tolcachir, regista argentino residente a Madrid e molto operativo anche in Italia, sottolinea con cura maniacale lo spaesamento, la follia di un personaggio privo e privato di baricentro, frammentato e svuotato di ogni residuale certezza, che crea il suo Dio e vi si immola. Salvo poi rinnegarlo e di nuovo immolarsi sulla sua tomba. Ma così nascono e muoiono le religioni, così i legami che ci tengono stretti, così le gabbie che ci costruiamo noi stessi nell’illusione di stare al sicuro.
Lo raccontano bene anche le scene di Cosimo Ferrigolo che inventano un luogo senza contorni eppure claustrofobico che minaccia di espandersi oltre il tempo e lo spazio. Un ossimoro viene da dire, di grande potenza. Come il sarcofago della salvezza, soluzione finale e definitiva, come la carne di cui cibarsi, come le ossa che restano, in una forma o nell’altra, per illuminare il buio. Come e perché non è dato anticiparlo, ma un indizio stava già sulla scena fin dall’inizio, una piccola oasi di luce che intercettava gli sguardi. Ci eravamo chiesti il perché: perché quelle luci, forse candele, disposte a terra. Per avvertirci che prima o poi il ciclo di vita e di morte si sarebbe chiuso e il cerchio saldato.
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Anna Cappelli
di Annibale Ruccello
con Valentina Picello
regia Claudio Tolcachir
scene Cosimo Ferrigolo
luci Fabio Bozzetta
produzione Carnezzeria, Teatro di Roma – Teatro Nazionale, Teatri di Bari
in collaborazione con AMAT.
Teatro India, Roma, fino a domenica 26 gennaio 2025.