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Alla fine, dopo una settimana e oltre di programmazione, non abbiamo resistito al richiamo di The Brutalist.
Troppe sollecitazioni. A partire dalla pioggia di premi che si è aggiudicato il film-opera (mai termine fu più azzeccato) di Brady Corbet: prima il Leone d’Argento all’ultima Mostra del Cinema di Venezia (dove peraltro più d’uno lo dava per Oro), poi i recenti tre Golden Globes e i quattro premi BAFTA, solo per citare i più noti riconoscimenti del settore, e nel futuro prossimo la corsa verso gli Oscar forte di ben dieci candidature. E ancora dettagli e numeri da capogiro: dieci anni di lavorazione, girato in Vista Vision (un formato Paramount anni Cinquanta), un budget di “soli” dieci milioni di dollari, 215 minuti di lunghezza (compreso un intervallo di 15’ integrato alla visione), commenti entusiastici…
Il racconto si dispiega per più di tre decenni, da subito dopo la Seconda Guerra mondiale al 1980. È il 1947 infatti quando l’architetto ebreo-ungherese László Tóth (un magistrale Adrien Brody, memorabile come ne Il pianista), scampato al campo di sterminio di Buchenwald, arriva negli Stati Uniti. La moglie Erzsébet e la nipote Zsófia sono rimaste in Europa, trattenute alla frontiera austriaca, impossibilitate – per ora – a raggiungerlo.
Gli inizi in povertà di László coincidono con la risoluzione 181 dell’Onu del 29 novembre 1947, che decretò ufficialmente la (s)partizione della Palestina e la nascita del nuovo Stato d’Israele. Agli orrori della Storia si contrapponeva il diritto del popolo ebraico (sacrosanto, per tutti) di “decidere del proprio destino”, almeno questo sembrava l’assunto. Ma per László, a differenza di Erzsébet e Zsófia che successivamente sceglieranno entrambe di ripartire per la biblica Canaan, la Terra Promessa dove cogliere una seconda possibilità e rifarsi una vita è qui oltreoceano, è l’America che lo accoglie magro da far paura ma colmo di gioia, è la Pennsylvania industriale in espansione di Philadelphia, città-simbolo del progresso e della storia USA (tanto per dire: vi furono firmate la Dichiarazione di Indipendenza del 1776 e undici anni dopo la Costituzione).
Ma già il momento dell’approdo di László a Ellis Island, tra gli immigrati di ogni dove stipati nella nave, quindi in fila negli stanzoni del porto con i cartelli numerati addosso, sembra insinuare qualche crepa nel sogno/miraggio per antonomasia, in quell’inquadratura della Statua della Libertà a testa in giù. Prima ancora l’aforisma goethiano («Nessuno è più schiavo di colui che si ritiene libero senza esserlo») ci ha gettato nell’enigma dell’arrivo a minare qualsivoglia illusione. Come se la salvezza contenesse in sé anche il germe della perdizione, e chi può garantire che non prolifererà?
A funzionare da catalizzatore per la vicenda di László è l’incontro-scontro con il magnate Harrison Lee Van Buren, che dopo averlo cacciato via in malo modo dalla sua lussuosa dimora lo riconduce al seguito, commissionandogli un ambizioso mausoleo in memoria della madre Margaret, insieme centro culturale e sportivo e luogo di preghiera destinato alla comunità. Formatosi alla scuola del Bauhaus, Tóth progetta un unico e molteplice fabbricato secondo i canoni del Brutalismo (uno stile architettonico di metà secolo scorso caratterizzato dall’uso del cemento a vista, geometrie rigorose e volumi massicci). Ma nel trascorrere degli anni László si consumerà nell’ossessione della sua realizzazione, perdendosi nei suoi demoni d’artista e di uomo, mentre Van Buren da benefattore si tramuterà in carnefice, mostrando nell’oscurità delle adamantine cave di Carrara l’altra faccia del potere, brutale e disumana. Solo nel finale sapremo che il protagonista ha finalmente portato a compimento la sua visione, quando invecchiato e in sedia a rotelle verrà celebrato nel contesto della Prima Biennale di Architettura di Venezia.
Scritto dal regista con la compagna Mona Fastvold, strutturato come una sinfonia, con tanto di ouverture e epilogo, The Brutalist è un film che esorbita dalle consuete misure e proporzioni, in una parola enorme. Enorme il materiale narrativo e visivo che il talento fuori discussione di Corbet maneggia e plasma in direzione del capolavoro. Sicché, quanto in chiusura riferito all’essenza dell’architettura per Tóth suona più come una dichiarazione di poetica di Corbet creatore che della creatura László da lui immaginata: il Cinema, quando è Arte, costruisce edifici inamovibili capaci di indirizzare la percezione oltre i limiti e di trascendere il tempo e lo spazio.