Adesso come allora, decidere tocca a noi di Alessandra Bernocco

Foto di Antonio Parrinello

È proprio vero che la scrittura scenica fa la gran differenza. Al punto che ho impiegato un po’ a ricordare che A torto o a ragione, traduzione di Taking Sides di Ronald Harwood (da cui il film omonimo di Istvàn Szabò) visto recentemente al Teatro India di Roma con la regia di Giovanni Anfuso, era stato fatto un po’ di anni fa con il titolo La torre d’avorio, diretto da Luca Zingaretti, anche in scena con Massimo De Francovich, nei panni controversi di Wilhelm Furtwängler, il celeberrimo direttore d’orchestra assurto alla gloria proprio nel momento in cui Adolf Hitler prendeva il potere.

Qui il ruolo è affidato a Stefano Santospago e quello che Zingaretti aveva riservato per sé, il maggiore rude e ignorante che dalla musica classica era invece infastidito, è di Simone Toni, entrambi attori di solida esperienza di teatro di parola, come Giampiero Cicciò, nel subdolo ruolo del secondo violino, pusillanime testimone di parte ma quale sia la parte non è sua priorità. Grazie a loro, soprattutto, la parola ci ancora alla storia e si eleva su una scena satura di tutto firmata da Andrea Taddei.

La prima impressione infatti è claustrofobica: ci troviamo in uno spazio che pare un grande ripostiglio buio e polveroso, tra mezzibusti, scrivanie, macchine da scrivere, faldoni, appendiabiti, quadri e cornici depositati a terra, oggetti accatastati e, sotto una coperta, lui, indistinto elemento di arredo di quello che sappiamo essere un ufficio berlinese nella zona di occupazione americana.  È il maggiore Steve Arnold, stivalacci sul tavolo e sonnolenza disturbata dalla quinta di Beethoven, che detesta. E che invece risuona dal grammofono per mano della giovane segretaria amante della musica classica, inutilmente dedita a fare proseliti.

Gli elementi ci sono tutti: la musica, il caos, la necessità di scremare da una quantità infinita di sollecitazioni quel che è più utile e significativo. Perché la questione al centro di questo testo è proprio discernere o, meglio, la possibilità di discernere: il bene dal male, il buono dal cattivo, la ragione dal torto.
Questione che nella fattispecie chiama dentro il rapporto tra arte e cultura, da una parte, e politica come soggezione al potere, dall’altra.

Può un artista o un intellettuale che si trovi a operare in uno stato di regime, essere libero di non acconsentire? Può creare e dare seguito ai propri pensieri liberamente, apertamente, senza censure, ritorsioni, condizionamenti? Mi viene in mente un filosofo, Martin Heidegger, la cui adesione-compromissione con il Partito Nazionalsocialista alimenta e divide ancora oggi il dibattito.
Ma Wilhelm Furtwängler, uno dei più grandi compositori e direttori d’orchestra del XX secolo, la tessera di partito non la prese né mai si piegò a fare il saluto romano. E allora come ha potuto diventare direttore d’orchestra ufficiale del regime nazista, al servizio del Reich fino al bombardamento di Berlino da parte dei sovietici?

La domanda, tuttora senza risposta, è argomento del testo di Harwood e la risposta è che risposta esaustiva non c’è. Vero è che al Fuhrer piaceva la musica, si sa e un po’ viene fuori, ma forse non basta. Vero è che Furtwängler amava la sua patria, e anche questo si dice. E poi non era ebreo, non era perseguitato, perché mai avrebbe dovuto lasciare la Germania? Perché mai avrebbe dovuto scegliere anch’egli l’esilio volontario come molti colleghi, Toscanini compreso? Per solidarietà? Per sprezzo del regime?

Foto di Antonio Parrinello

Questo si sarebbero aspettati gli Americani, che trovano nel maggiore il portavoce dell’accusa, l’agente di un interrogatorio incalzante non privo di momenti patetici, ilari, dissonanti. Infatti, quale sarebbe l’accusa? Prove certe di connivenza con il Terzo Reich non ce ne sono, a meno che non sia connivenza suonare al compleanno di Hitler alla luce del sole. Non ci sono prove di sotterfugi, di legami sotterranei, di complotti ai danni di chicchessia. Si dice anzi che Furtwängler riuscì a far avere il nulla osta per l’espatrio di molti ebrei. “Quanti ebrei hai aiutato?” Gli domanda il maggiore. Perché nel caso varrebbe come capo d’accusa. Logico no? Se sei riuscito a far espatriare gli amici è perché sei tu amico del Führer.
Invece no. Se sono riuscito a far espatriare gli ebrei, se sono rimasto nella patria che amo è perché “l’unica differenza che esiste per me è tra artisti validi e artisti non validi, non tra ebrei e non ebrei”.

Questo, sostanzialmente il punto di vista del musicista, dell’artista, dell’uomo libero, etico, dedito alla sua arte e necessitato da essa, al punto che sul suo altare tutto pare lecito. “Il mio unico obiettivo è dimostrare che l’arte è superiore alla politica”. Nonché “l’unica arma che ci resta contro Auschwitz”.
Ma allora perché il maggiore americano lo vorrebbe processato dal tribunale di Norimberga come un kapò o un criminale di guerra?
Perché al potere l’arte fa male? Anche. “Il potere è incorruttibile soltanto quando non è sensibile alla bellezza”. Ma qui c’è dell’altro e ha a che fare con l’umana fragilità di ognuno di noi.
Il maggiore non è soltanto ottuso e insensibile alla bellezza: il maggiore ha visto i cadaveri e ne ha sentito l’odore. E l’odore marcio di carne umana bruciata lo sente forte di notte quando prova a dormire e viene visitato dagli incubi. Nonostante Beethoven.
“Tu di fronte a milioni di morti mi vieni a parlare di arte?”.

Perché questo è il punto: il significato del testo di Harwood e di questo lavoro è dare voce a un’umanità tormentata e complessa, che mentre ammette non senza vergogna peccati più o meno veniali, rivendica le proprie ragioni, un’umanità con le ferite ancora aperte e tanti conti in sospeso che non verranno saldati.
Ciascuno domanda clemenza e prova a nascondere la propria vulnerabile umanità: chi in un segreto, chi in un principio, chi nella dichiarazione della propria ignoranza, chi in un ricordo ora rimosso ora portato a coscienza.
Ma servono attori di ottima caratura e per fortuna li abbiamo: attori che sanno trasmettere pensieri e ripensamenti, gestire le svolte emotive, calibrare i picchi e gli abissi di queste anime perse sopravvissute all’orrore.

Foto di Antonio Parrinello

Sarà il secondo violino di Giampiero Cicciò, uomo di partito infiltrato nell’orchestra, a sintetizzare l’orrore con un’accorata ammissione della propria doppiezza: “Lei non sa cosa vuol dire alzarsi tutte le mattine terrorizzati da un regime assoluto che censura parole, pensieri, emozioni, paralizza la volontà e ti riduce a un fantoccio”.
Lei non lo sa, maggiore Arnold, ma forse adesso comincia a comprendere. E prima di spedire un artista dritto e filato a Norimberga, ecco che anche il maggiore avrà il suo attimo di esitazione: “Tocca a noi decidere”. Tocca a noi.

Tengono molto bene testa ai tre Liliana Randi, Luigi Nicotra e Roberta Catanese, bravi e ben accordati, sui quali la regia si affida con tranquillità.
Giusti i costumi di Isabella Rizza, rispettosi dell’epoca e ben caratterizzati.

A torto o a ragione

 di Ronald Harwood
regia Giovanni Anfuso
con Stefano Santospago, Simone Toni, Giampiero Cicciò, Liliana Randi, Luigi Nicotra, Roberta Catanese
scene Andrea Taddei
costumi Isabella Rizza
musiche Paolo Daniele
light designer Antonio Rinaldi
produzione Teatro di Roma – Teatro Nazionale, Teatro Stabile di Catania, Teatro Vittorio Emanuele – Messina.

Teatro Vittorio Emanuele, Messina, fino al 23 febbraio 2025.