“Dark Matters” il Festival d’Inverno della Lavanderia a Vapore di Paolo Ruffini

Foto di Andrea Macchia

«In quello che è ormai un classico, lo storico Benedict Anderson sottolineava che, “a parte i villaggi primordiali dove si vive sempre faccia a faccia (e anche lì…), ogni comunità è immaginata”. Le frontiere di un gruppo, i modi in cui pensiamo di formare una comunità con alcuni e di essere estranei ad altri, sono sempre frutto di una costruzione immaginaria o fantasmatica, di un gioco di rappresentazioni.  Anderson collegava ad esempio l’origine della coscienza nazionale, cioè al tempo stesso la nascita dell’idea di Nazione e la costruzione simbolica della sua delimitazione, alla scoperta di una nuova tecnologia: la stampa, che avrebbe permesso l’affermazione delle lingue nazionali sul latino, la loro codificazione e, soprattutto, la circolazione degli scritti in un ambito limitato, al cui interno si sarebbero formate in qualche modo una sfera pubblica e una attualità condivise.

Non si può supporre che Internet favorisca oggi un processo contrario di denazionalizzazione delle menti e degli immaginari? Che questa tecnologia consenta al soggetto di dotarsi di uno spazio di iscrizione e di definizione più ampio, d’immaginare nuovi modi di inventare sé stesso e di pensare i collettivi di cui fa parte? Che forma assumerebbe la politica in seguito all’invenzione di questi modi di soggettivazione?» (1).

Foto di Andrea Macchia

Le domande che il filosofo Geoffroy de Lagasnerie si fa pongono al centro la questione delle società complesse nella nostra contemporaneità e della loro rappresentazione nello spazio sociale, lì per riattivare un discorso generatore di esperienze feconde nei processi collettivi a partire dal singolo. È proprio all’interno dello spazio sociale che si articolano processi (sociali e culturali) capaci di mettere in crisi i concetti stessi di identità.

Ci sembra uno dei punti di forza del lavoro svolto in questi anni dalla Lavanderia a Vapore di Collegno (Torino), attivatore cioè di meccanismi profondamente sociali, di sofisticate “tecnologie” relazionali e di rilettura delle trasformazioni culturali a partire dall’opera ma che non si limitino a essa, anzi, attraverso residenze artistiche (per la danza) in dialogo con i corpi, gli spazi e le comunità di questo territorio, Lavanderia a Vapore è diventata un punto di riferimento internazionale.

Un disegno quello di Chiara Organtini (che ne è la fautrice) molto preciso, poco estetizzante di un certo nostalgico accademismo (giudicante, di un futuribile tecnologismo d’effetto), ma invece più aperto alle opportunità della frontiera della performance in presenza, delle diverse perifrasi della performance, nell’essere cioè implicito enunciato di una comunità performante.

Il Festival d’Inverno della Lavanderia si è svolto dal 14 al 16 febbraio 2025, appuntamento cadenzato sul frazionamento stagionale e con il titolo in questa sessione di Dark Matters, ovvero tutte le possibilità di una “mistica” dell’oscurità, della penombra, del visibile percepito e di quello manifesto che urla la sua potenza nelle varianti del nero, dove Alain Badiou parla chiaramente di dialettiche, in un plurale dei nero e in un refrain continuo al marxismo (Alain Badiou, Lo splendore del nero), qui a Collegno aggiornato anche alle chance del glamour.

Foto di Andrea Macchia

In questo archivio troviamo lavori che ridefiniscono la “responsabilità” del proprio ruolo degli artisti presenti in un divenire “disobbediente”, una sorta di artaudiana irriverenza al diktat lessicale della forma.

Così lo spettacolo della franco-algerina Dalila Belaza si configura come un quadro in dissolvenza, trasparenze di un ambiente ovattato dall’oscurità che lascia trasparire filamenti corporei, una danza disarticolata nel glossario gestuale di mani e braccia delle quali si percepiscono il disegno in evoluzione. Tutto giocato sul filo delle possibilità della percezione, questo Figures argomenta un prelude, una parte espansiva centrale per poi ritornare a una chiusa sia ritmica che sonora, di quel sonoro che è andato man mano amplificandosi nella rumoralità industriale nella quale percepiamo un pensiero sinfonico, quasi persino armonico e “analogico” nella sua astrattezza sintetica.

Sorprende e cattura Figures ovviamente per la bravura della sua interprete-autrice ma ci rimanda finanche a una lettura post-novecentesca, atterrata sulle possibilità di un oggi capace di pensarsi in continuità con l’eredità propria di un Novecento mai estinto del tutto, di un espressionismo fluido alla Maurice Ravel sperimentato nel Boléro. Qui l’ipnotismo è rarefatto, di grande tensione emotiva, capace di tessere una trama di bellezza col rigore e l’asciuttezza della struttura coreografica.

Foto di Andrea Macchia

Il Festival ricchissimo di appuntamenti si muove con “ostinata” anarchia di segni nei quali ognuno è chiamato a costruire il proprio senso auto-narrante, la propria orchestrazione di miraggi nella Darkness.

Capitolo a parte merita attenzione il Tatami Talk a cura della cooperativa Pandora, nell’ambito del progetto DE4Ed (ovvero Democracy 4 Education) moderato da Valentina Roselli, un incontro in cui studenti ormai adolescenti hanno posto delle domande ai convenuti a nostra volta chiamati a riflettere sul cambiamento epocale e i suoi guasti di sistema, con il contributo di alcune suggestioni o riflessioni scritte espresse anche oralmente in quella sede, testimonianza intergenerazionale in eredità ai promotori.

Ma poi anche la Sfilata Afro Fashion (in collaborazione con Otello Boutique e LN Artigiana) con la regia di Katina Genero, Simon Giavy e Sara Peters (Mamadanse – Centro di Formazione alla Danza), è un’esplosione di movimenti dove tradizione e risemantizzazione di quella tradizione sa parlare i tanti alfabeti nella danza ma, ancor di più, sa dare parola a tutti e tutte in quella partecipazione collettiva di una “processione” laica e festosa.

In uno spazio (dentro/fuori le architetture della Lavanderia) pensato per la messa in prova della propria possibilità di prendere parte alle danze, anche il Cerchio di musica afro e impro danzate aperte al pubblico (in collaborazione con le musiciste e i musicisti del Black History Month di Torino e il Mamadanse) definisce un’altra felice sfaccettatura fatta di assonanze prospettiche tra darkness e blackness.

E un rimando a una temperatura incandescente ci portano Melissa Guex e Clément Grin, un duo dalla Svizzera davvero straordinario per potenza ritmico-sonora e monumentali danze dalla fisicità estroversa, quasi una ancestrale eco che unisce un rito nell’evocazione di un altrove e il dub del rave; figura catartica, quella di Guex, presa nel suo profondo incunearsi “stregonesco”, scende tra il pubblico, gestisce con potenza un sabba, voce e corpo all’unisono nello sforzo, paradigmatico al battere forsennato di percussioni, con un accompagnamento magistrale alla batteria, che sta sul pezzo con ossessiva battuta di un ritmo incessante. Lavoro notevole questo Down – single version e nuovamente una performance nella quale assistere potrebbe significare anche partecipare, stare al gioco, essere parte di quel rito.

Foto di Andrea Macchia

Edoardo Mozzanega con il suo Hide ci catapulta nell’antro della Lavanderia a Vapore, nelle sue inedite segrete, ricavate dai sotterranei del padiglione della Stireria, in quell’architettura a livelli sovrapposti, pochi metri quadri dove sembra perfettamente calibrata una performance site specific così grondante di fatica, di contorni sbiaditi, di oscurità ricreata, quasi un viaggio nell’oltretomba rigorosamente aderente al trasfigurante idioma percettivo di una allucinazione indotta.

Hide è il sondare da speleologo, è la “stagnante” pressione di un abisso che preme e dove ciò ch’è naturale può restituire emozioni inquietanti, una ricerca (nel senso proprio dello stare in ricerca, posizionarsi in quella condizione per comprenderne il fiato interno, quello del suo corpo e il fiato degli astanti posizionati molto vicini all’azione), un quadro alla Arnold Böcklin, caverne del sottosuolo con tutte le memorie di un soffocante andamento parcellizzato, spostamenti cauti che non hanno parola ma rumorosità gutturali, un registro vocale laringeo (vocal fry), come un crepitìo che emette una voce strozzata dall’impedimento fonico e dalle basse frequenze.

Mozzanega ricrea la sua grotta interiore, ne sonda l’asfittica e umida (e intima) metratura, si offre in un controluce sacrificale di un tempo dilatato, persino impietoso. Splendido! La sua figura si muove come per orientarsi, tutt’intorno nell’oscurità ci sono pozzanghere di acqua stagnante, un gocciolio continuo, poca luce che rimanda a possibili vie di fuga tutte da scoprire, un rumore-suono incautamente sorregge gli spostamenti del performer, si farà incipiente ma, nel frattempo, quel luogo rimane il nostro deposito di paure. Viene alzato da terra un panneggio, sua seconda pelle? Animale squartato? Metafore e allucinazioni, dunque, i bagliori di un supplizio alla Chaïm Soutine o il sangue qui inverato dall’immaginario di Hermann Nitsch sembrano riflettersi in questo lavoro portentoso.

Foto di Andrea Macchia

Teodora Grano apre su un altro versante il tema dell’auto-narrazione nella grana dell’oscurità, una chiosa didattico-surreale intorno alla storia dei film horror, una sua indagine-lezione mostrata come atto di confidenza estetica, anzi decisamente “sentimentale”.

Grindhouse_cosa sanno i film horror di noi? sta al teatro quanto certe “cose” governavano gli appuntamenti di un quotidiano normale vivere della polacca Janina Turek, diventate letteratura. È installazione, territorio da sondare, una ampia stanza dedicata ai cimeli cartacei, digitali, oggettistica varia che riproducono le ombre, i suoni, le immagini con quel sottofondo simbolico di un genere impropriamente relegato nella serie B del cinema, a volte trash. Memento la sua passione, cose sparse per il pavimento, richiami al “cadaverume” vario, sangue, marciumi, alle icone del genere che hanno marchiato immaginari e interpretazioni sopra le righe. Una educazione quella di Teodora Grano dichiarata: «La mia relazione con l’horror è non solo affettiva, ma anche erotica. Per me è uno spazio necessario, è uno spazio di critica, di pensiero, di incorporazione di desideri e ambivalenze, di cose che non si riescono a dire e mandano a fanculo il linguaggio» (2). E questa overdose di microstorie nella storia dell’horror cinematografico, condotte con pienezza di senso e bravura, hanno approntato una felice relazione inaspettata con lo spettatore, a motivare (facendolo sorridere) un mondo non per tutti, evidentemente nel privé messo a disposizione del nostro (anche involontario) voyeurismo.

Foto di Andrea Macchia

Giusta chiusura di un Festival arricchente di stimoli lo spettacolo degli spagnoli Pere Jou e Aurora Bauzà A beginning #16161 D, dove il buio e le sue trasparenze accennate sono al servizio di una coreografia minimale, di una gestualità accennata delle mani avvolgente, in quel clima refrattario alla luce che avvolge tutto il resto del corpo. Un canto prorompente degli interpreti di grandissima levatura, spostamento concettuale di lingue semanticamente irriducibili allo svelamento, qualcosa di arcano e misterioso, tardo barocco e fioritura contemporanea, qualcosa che ci ricorda la malinconia di Franz Joseph Haydn.

Splendido lavoro sulla coralità che si fa corpo, persino pensiero del gesto, intrecciando tonalità austere e filari di armonie. Splendido lavoro da ascoltare e da vedere.

Note
1) Geoffroy de Lagasnerie, L’arte in rivolta. Snowden, Assange, Manning, Stampa Alternativa, Viterbo, 2016, pp. 139 – 140.
2) Dal programma di sala dello spettacolo.