
Inauguriamo con questo primo incontro la rubrica Attrici, a cura di Laura Palmieri, che avrà cadenza bimestrale.
Cosa significa essere una attrice? Ce lo raccontano alcune tra le maggiori interpreti del nostro teatro, di cui ricorderemo negli anni – o già nel presente – lo stile, il rigore, la potenza, la personalità.
Un incontro vis-à-vis per tracciare percorsi, d’arte e di vita, per scoprire segreti e aspirazioni di uno dei mestieri più antichi e più belli del mondo.
Una stagione d’oro per Anna Della Rosa quella che si è appena conclusa, che l’ha pluripremiata e riconosciuta come una delle migliori e più versatili interpreti della nostra scena. Per la sua interpretazione dei testoriani Due lai – Erodiàs + Mater strangosciàs – ricevuti in dono , come in un passaggio di testimone, da Sandro Lombardi, le è stato assegnato il premio dell’Associazione Nazionale Critici di Teatro e il Premio Duse, che l’ha premiata anche per Accabadora, il testo di Michela Murgia messo in scena da Veronica Cruciani e per Durante di Pascal Rambert, e ancora per l’interpretazione di Cleopatra nel suo primo Shakespeare, Antonio e Cleopatra, con la regia di Valter Malosti, che le è valso anche il Premio Flaiano.
Senza dimenticare il recente successo di Orlando, un adattamento di Fabrizio Sinisi dal romanzo di Virginia Woolf e dal carteggio tra Woolf e Vita Sackville-West Scrivi sempre a mezzanotte, con la regia di Andrea De Rosa.
Ogni volta uguale, ma anche impercettibilmente diverso. Quel replicare che è l’essenza del teatro e dell’arte del recitare. Quell’essere lì, in presenza, qualunque cosa accada, e sentirsi sempre nella parte, cogliendone ogni volta nuove sfumature, significati, respiri. Essere lì con il corpo, la voce, che diventano strumenti di comprensione. Cosa significa per te essere attrice?
Innanzitutto, essere curiosa della vita, osservare le persone, prestare orecchio alle loro conversazioni, osservare e incamerare materiale. Poi significa avere il desiderio di comunicare con il pubblico attraverso le emozioni che possono arrivare dalle parole altissime che il teatro racchiude e custodisce, amuleti che quando li sfreghi ti portano altrove, in quella parte più profonda e segreta che c’è in ciascuno di noi. Le persone hanno vite molto difficili, molto asciutte, molto rinsecchite, molto schiacciate e quindi penso che il teatro possa essere una linfa in questo senso e credo che ci voglia molta cura nel preparare uno spettacolo e un personaggio, con grande senso di amore.
Nel teatro c’è l’ampiezza dell’umano, è un alleluia alla vita. Questo penso che possa significare per me oggi fare l’attrice.
Come hai iniziato, come è maturata in te questa decisione?
Da bambina. Io lo volevo fare, follemente fare! Andavo tutte le estati per quattro settimane in un kinderheim in Val di Non, in Trentino, la Casa degli Scoiattoli, fondata da due illuminati della pedagogia, marito e moglie. Lo scopo di questo luogo era di sviluppare le capacità relazionali dei bambini tra loro, la collaborazione, il rapporto con la natura, il gioco, e che ognuno scoprisse le sue attitudini. Quindi si facevano i lavori col legno, si scolpiva, si costruiva, si dipingeva, si giocava nei boschi, ci si rotolava. Si facevano le recite. E io lì ero in grazia di Dio, mi piaceva da morire.
Essere un’attrice significa anche sapersi mettere in sintonia ogni volta con registi diversi, stili e metodi differenti, mantenendo però la propria “identità” artistica. Poi naturalmente ci sono sodalizi più duraturi che nascono da idee, pensieri condivisi … ci racconti qualcosa di questi tuoi incontri?
Ognuno dei registi con cui ho lavorato mi ha insegnato qualcosa. Ho sempre lavorato con registi che credono nella libertà e nella capacità creativa di un interprete. E questo mi ha dato moltissimo, la fiducia riposta in me ha fatto sì che io lavorassi serenamente e che dessi il più possibile, e sono registi che vogliono che esca la tua identità proprio perché questo fa sì che ciò che è in scena vibri. Sono stata senz’altro fortunata.
Peter Stein è il primo con cui ho lavorato subito dopo il diploma nella Pentesilea di Heinrich von Kleist. È come se avessi fatto il militare con lui. Toni Servillo è stato per me lo spartiacque, un Maestro. Con Massimo Castri quando ho fatto Questa sera si recita a soggetto c’era Valeria Moriconi in scena, meravigliosa, una leonessa.
Dopo molti anni, mi è capitato di insegnare alla scuola di ERT e la maggior parte delle cose che io ho fatto e a cui ho attinto sono state quelle che ho appreso con Massimo Castri. Perché aveva un rigore, un’analisi, un sistema che mi si era ficcato nella memoria e che è stato, come dire, la griglia da cui spontaneamente mi è venuto di partire.
E poi l’incontro con un regista-drammaturgo come Pascal Rambert e la grande libertà che lascia agli attori, come quella, fondamentale, che mi ha regalato Valter Malosti, facendomi scoprire i versi di Cleopatra, quelli shakespeariani adesso, ma ancor prima quelli straordinari di Testori.

Parliamo di Testori e del tuo calarti negli abissi della sua lingua. Il tuo primo incontro è stato giovanile, appena uscita dalla Paolo Grassi nel 2002 con I promessi sposi alla prova con la regia di Maurizio Schmidt nel ruolo della Monaca di Monza, poi nel 2021 la Cleopatràs con la regia di Valter Malosti, e adesso gli altri due dei Tre lai che Giovanni Testori scrisse nel 1992, negli ultimi mesi della sua vita, Erodiàs e Mater strangosciàs. Una bellissima prova d’attrice, che ha lasciato il segno, e che hai costruito sotto la guida di Sandro Lombardi. Ci racconti qualcosa di questo percorso?
Partirei dal mio reale battesimo testoriano, con Cleopatràs nel 2021, dove per la prima volta mi sono confrontata con Testori e la sua lingua, e in questo Valter Malosti mi ha aiutato tantissimo su come tenere allo stesso tempo l’esattezza del verso, della dizione, e una verità di sentimento, una passione, un calore, che poi si declina in ironia, grottesco, ridicolo, tragico, per cui poi sono tante passioni diverse che Testori chiede e dona.
E questo mi ha aiutato poi a lavorare con Sandro Lombardi, anche se il primo giorno di prove con Sandro a tavolino mi sentivo a scuola, alle elementari. Voglio dire, nonostante facessi l’attrice da tanti anni, e non è che non avessi praticato le consonanti e i dittonghi, con Testori ci vuole un’esattezza chirurgica perché la melodia esca. È davvero come uno spartito. Senza che tu te ne accorga, si aprono le porticine, come se ogni parola di Testori fosse una chiave che apre una stanzetta, una stanzina, un cassettino, un cassettone. E poi è stato bellissimo proprio perché era una consegna di ciò che Sandro aveva fatto, dopo più di vent’anni dalla messa in scena con la regia di Federico Tiezzi, la memoria di quello che aveva fatto, filtrata dalla sua esperienza, maestria. Per cui è stato proprio come ereditare un tesoro molto prezioso.
Parliamo invece della tua Cleopatra shakespeariana, sicuramente molto diversa dalla Cleopatràs di Testori. Che tipo di lavoro hai fatto insieme a Valter Malosti, che è anche in scena nel ruolo di Antonio, per costruire questo personaggio?
Il testo di Shakespeare è disseminato di indizi e di giochi metateatrali, e il punto di partenza di Valter è stato pensare a questi due personaggi proprio come se fossero due attori che si autorappresentano, come fanno in fondo tutti i potenti anche oggi, figuriamoci nell’antico Egitto e nell’Impero romano!
All’inizio ci domandavamo come si fanno a dire queste cose così spropositate, e lei come fa a cambiare umore e tono così repentinamente, di scena in scena. E allora ho pensato che dovessi immaginarmi veramente come una di quelle dive americane degli anni Cinquanta che sfasciavano la casa, la stanza, la suite dell’albergo e poi passeggiavano di notte tremando e piangendo, e l’indomani trovavano mazzi di rose rosse …
Mi ha aiutato molto partire da questo immaginario per immergermi nella profondità e nella sacralità contenuti in questo personaggio e per dare vita ai suoi eccessi e ai suoi cambi di registro così sorprendenti, ma così veri, e passare dal tragico al comico e viceversa.

Quanto ti confronti con il presente nella preparazione dei tuoi personaggi?
C’è una battuta che io adoro, in Cleopatra, siamo verso la fine della tragedia, Antonio è appena morto tra le mie braccia e sono con la mia ancella e ci immaginiamo cosa ci succederà fra poco, cioè che verremo portate come bottino di guerra in terra straniera e io ho queste battute «dei fanatici lascivi e insolenti ci tratteranno come prostitute e bruceranno dalla voglia di fare con noi quello per cui ci accusano …».
Più presente di così! Infatti, cerco di consegnare al pubblico queste parole con una voce asciutta, livida, perché arrivino come una lama.
A proposito della attualità, del grande teatro e della grande letteratura che sono sempre contemporanei, come hai affrontato il personaggio di Orlando e il tema dell’identità, così discusso oggi?
Nadia Fusini dice a proposito di Orlando, e io sono pienamente d’accordo con lei, che non poteva che essere una donna a scrivere un testo così, che racconta sì il cambio di sesso di questo favoloso personaggio, ma in realtà è soprattutto un inno alle donne e alla libertà.
Ciò che interessa a Virginia Woolf è la ricerca della felicità, del piacere sotto qualsiasi forma venga. E questo anelito, questa esigenza e questa propensione all’aprirsi, allo sfuggire alla meccanicità, alla macchinosità e all’inquadramento, penso siano la nostra specificità femminile e ciò per cui dobbiamo batterci e ciò per cui ci osteggiano. Quindi sì c’è il tema dell’identità, ma soprattutto c’è il tema dell’essere donne liberamente, pienamente.
Sto leggendo proprio in questi giorni un romanzo emblematico su questo argomento, A quattro zampe di Miranda July. Lei è una performer, regista cinematografica, attrice, per me è un Orlando del 2025, una donna libera da ogni convenzione, una donna come potrebbero e dovrebbero essere tutte le donne se avessero il coraggio di dare voce alla propria emancipazione sessuale e del pensiero. Davvero mi fa impazzire, ti seduce per l’intelligenza, l’arguzia, la sensibilità … è una maga!

Non senti mai la fatica del fare teatro, delle repliche?
Per me c’è la felicità nel replicare uno spettacolo. In questa ripetizione c’è una grande libertà di crescere, pur nel rigore della struttura data in partenza. Credo che sia come per un pasticcere che ama fare la sua torta, che ogni giorno gli verrà buonissima, ma leggermente diversa. Anche io cerco di rendere profumato e fragrante tutti i giorni quel dolce che è Shakespeare o che è Virginia Woolf o Testori.
A quale attrice del passato o del presente ti senti più vicina, per somiglianza o per aspirazione?
Trovo immensa Mariangela Melato. Penso che sia un’aspirazione e un’ispirazione, perché allo stesso tempo era comica, era tragica, era del popolo, era regina. La incontrai al Valle, quando facemmo la Trilogia della villeggiatura e venne nel camerino e fu di una generosità, di una dolcezza, come dire, senza alcuna smanceria, ma di una verità assoluta.
Ecco, per me è un emblema. E poi anche il tipo di intelligenza, il suo modo di essere un’artista e di essere una donna, quelle corde drammatiche, ma anche comiche che sono felice e grata di avere anche io. In questa Cleopatra ci sono anche delle scene comiche, proprio nel testo, ma Valter Malosti con la sua regia ha voluto evidenziarle, tirarle fuori. Anche in Orlando ci sono, il pubblico ridacchia, o ride. Però certamente non sono delle commedie, e a me in futuro piacerebbe molto fare una commedia. Non so quale, ma una commedia pura. Perché è fantastico!
E una regia?
Io? Per ora sono felice di dare il mio contributo all’arte del teatro come attrice, ma mai dire mai!