Meno di due, più di due. La coppia per Teatrodilina di Carlo Lei

Foto di Loris Zambelli

Negli ultimi mesi è stato possibile, a chi se li fosse persi, vedere tre lavori dell’ormai nutrita produzione di Teatrodilina, compagnia romana, con sede in quella Roma Est su cui si ritrova la coincidenza di tanto teatro e danza nuovi, dagli spazi e realtà diversi del Quarticciolo, Fortezza Est, Centrale Preneste, alle associazioni e compagnie, Triangolo Scaleno di Roberta Nicolai, Chiasma, Bartolini/Baronio, Biancofango, Teatro delle Apparizioni e la lista è ancora lunghissima. Si tratta di tre spettacoli che hanno in comune un tema, la coppia, colta in tratti diversi del proprio arco di vita. Si tratta di: Le vacanze dei signori Lagonia (2016), Il bambino dalle orecchie grandi (2018) e Meno di due (2023), scritti da Francesco Lagi, affiancato nel primo da Francesco Colella, pilastro della compagnia, anche in scena insieme a Giovanni Ludeno. Ritroviamo lo stesso Colella in Meno di due affiancato da Anna Bellato e Leonardo Maddalena, protagonisti, questi ultimi, del Bambino.

A consentire un’operazione di lettura coordinata dei tre lavori, andati in scena allo Spazio Diamante (i primi due) e al Teatro India (il terzo), c’è un fatto di linguaggio: Teatrodilina ha oggi raggiunto una felice consapevolezza di mezzi espressivi a cui molte compagini mirano senza risultati paragonabili (per lo più a causa di una mancanza di tenuta sulla corda dell’intimità e dell’intensità, di uno sbilanciamento a favore dell’atmosfera pura). Si tratta di un linguaggio che pur mantenendosi contemporaneo è accogliente, apparentemente affettuoso, inclusivo. E riconoscibile. C’è poi quella prima ragione tematica: tutti e tre i lavori hanno al centro una coppia. Una coppia che si è appena formata (Il bambino dalle orecchie grandi), una che è insieme da anni (Le vacanze dei signori Lagonia) e una che, probabilmente, finirà per non essere (Meno di due).

Foto di Manuela Giusto

Quale delicatezza

Tenuta sulla corda dell’intimità e dell’intensità, si diceva. Più volte la critica ha parlato di “delicatezza” e di “spontaneità” a proposito della scrittura scenica di Francesco Lagi (autore di testi e messinscene). Della sua opera dovrebbe al contrario apparire evidente la forza antinaturalistica finalizzata all’emersione di particolari microclimi di vita e, in un certo senso, la sua brutalità. Il testo è lavorato fino alle sillabe delle interiezioni, delle ripetizioni, della balbuzie – altro che spontaneità. I personaggi dicono e si disdicono, avanzano e retrocedono, mercanteggiano, si fanno forti della ripetizione più che dell’argomentazione. La delicatezza c’è, eccome, ma è dei personaggi che Lagi sceglie di mettere in scena e va più interpretata come “fragilità”. La frammentazione della lingua e le stereotipie del gesto che la rispecchiano traducono il dolore dell’esistenza, sono il contrario della spontaneità. Ma la scrittura non ha nessuna delicatezza.
Non altrimenti, anche il modo in cui quei personaggi sono costruiti sulla scena ignora la delicatezza; lo stile della recitazione non disdegna il grottesco, e il lavoro di Colella è esemplare da questo punto di vista, è bandiera di questa direzione, nella lingua franta, nel corpo annodato. Non è solo il grottesco “nero” della signora Lagonia che interrompe una dichiarazione d’amore per segnalare una scarica di diarrea, ma anche quello “bianco”, trascolorante nel comico del professore di latino che indossa un improbabile berretto di lana fatto ai ferri, solo per il piacere di chi gliel’ha regalato, incrinando definitivamente la propria immagine ai nostri occhi, ancor prima che quel berretto appaia calzato da una terza inattesa presenza. O quello degli amanti dalle orecchie grandi, impauriti di ferirsi, ma destinati a farlo, intenti ad ascoltare un concerto di oggetti in frantumi fino a provocare la distruzione dello stesso dispositivo utilizzato per quell’ascolto.
Lavorati, come abbiamo detto, con una lama da bisturi, quei personaggi posti di fronte all’impossibilità dell’abbandono, possono risultare una cucitura di momenti acmeici in cui la tensione dell’esserci, anche loro malgrado: anche un sospiro è un sospiro in primo piano, i gesti quotidiani sono tali solo per convenzione, in realtà si dichiarano costantemente eccezionali, impostati e sofferenti, anche quando ballano.

Foto di Francesco Lagi

La scena di Teatrodilina è dunque una teca del mondo, una scena-laboratorio: le cavie che vi si portano sono dei piccoli Frankenstein (nel senso della creatura) di fragilità e tormenti contemporanei, ultra-gozzaniani se a Gozzano si amputa la grigia e aerea cupio dissolvi, circondati di oggetti feticcio e di azioni non compiute o scomposte.
Altro che delicatezza: c’è amore, questo sì, da parte del loro autore, c’è tenerezza, compassione e comprensione; ma c’è anche crudeltà, quella crudeltà che scortica ed espone.

Rifugio

All’interno di questo linguaggio un altro gesto, quello autoriale dell’impaginazione, nei tre lavori vive di rispecchiamenti e di un repertorio di meccanismi di emersione, come l’illusione della circolarità, in Meno di due e nel Bambino, o il protrarsi dei finali oltre la naturale sensazione di scioglimento, con una sorta di ripetuta cadenza d’inganno, e l’esordio spesso illusorio, al modo delle Serve genettiane. Forse almeno due di questi movimenti (il ricorso e l’incapacità di finire) mimano un percorso dello sguardo del drammaturgo, il gesto di ritornare sul già accaduto per rivederlo, con un bagaglio di vissuto diverso, una prospettiva più consapevole o lisa dallo scioglimento di ogni illusione, o il non stancarsi di esplorare il vetrino messo al microscopio, il rifiutarsi di spegnere le luci e lasciare, infine, il laboratorio.

Possiamo dunque provare a immaginare questi movimenti non solo come strutturali, ma anche come compiuti in relazione al contenuto della tematica della coppia.
In questo percorso si passa attraverso la possibilità di stare insieme negli anni quale reazione strutturale di fronte al crollo, come dopo un terremoto i due puntoni di una capriata rimangono saldi anche se i pilastri che li sostenevano sono crollati, e così le tegole della copertura, e non c’è più niente da tener su (Le vacanze dei signori Lagonia). Si incontra l’estrema fragilità delle cose e delle persone, l’occasione perduta di cullare quel cristallo che, invece, ci si rompe tra le mani, la febbrile attrazione, parallela, verso quella distruzione (Il bambino dalle orecchie grandi). Si realizza che per un amore ingenuo e per una vita a due ci si può ritrovare fuori moda, sdruciti dagli anni, che l’amante appassionato è un personaggio che non si hanno più le carte o il fisico di rappresentare, che le parole dell’amore, soggette all’uso del tempo e degli strumenti in cui viaggiano, possono risultarci inservibili (Meno di due).
Insomma, se le premesse di questi lavori ci concedono di ipotizzare ancora la coppia come rifugio dal mondo o almeno come ambizione di respiro dai fortunali della vita, dobbiamo abituarci ad accettarlo, questo rifugio, pieno di spifferi, di finestre sconnesse che lasciano passare l’acqua quando la tempesta si raccoglie in scrosci.

Foto di Manuela Giusto

Per un teatro dell’umano

E poi, com’è che gli attori di Teatrodilina, sembrano così grandi? Che lo siano allo stesso modo di quelle orecchie per cui i protagonisti del Bambino sono stati presi in giro da piccoli, orecchie diverse da quelle di tutti, troppo grandi e sensibili, capaci di percepire ogni minimo fruscio dell’anima, ogni battito di ciglia proprio e altrui?
Lo spazio della scena arredata con misura quasi scompare attorno ai corpi, il soffitto si abbassa sopra le teste degli abitanti di questi spazi, chiusi o aperti che siano. È difficile immaginare il mare davanti ai coniugi Lagonia: più facile è vederli, nonostante la fuga finale e il breve tradimento di una nuotata al largo che mette in ambasce la signora, sporti sullo spazio placido di uno stagno concluso, di una piscina gonfiabile. La grotta in cui Colella e Bellato passeggiano osservando gli antichi graffiti non si allarga molto oltre lo spazio scenico e le americane a vista, e loro sembrano muoversi in un tinello. Ma perché?
Forse perché la scrittura di Lagi, nella sua lente attenta al dettaglio con caparbietà, non conosce altri spazi che quelli delle persone, i suoi panorami sono tutti interiori: la distruzione degli oggetti è metafora di un sisma. Anche gli scomparsi, come la bambina dei Lagonia, è convocata allo spazio presente attraverso il corpo dei genitori, che ancora ne sentono “il sudorino” dopo una corsa pazza.
E così, attillata ai mondi interiori dei personaggi, questa scrittura di scena raggiunge nel senso più nobile il grado di satira, satira impietosa ma mai acida, descrizione di cosa siamo, di come agiamo e viviamo.
Negli spettacoli di Teatrodilina, l’essere umano, nella sua penosa e commovente inettitudine, campeggia. Da perdente, fuori scala e fuori tono, sferzato da accessi di vento e pioggia, in un rifugio precario come quello dell’amore di coppia, rivendica il proprio ingiustificabile diritto a esistere.

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