Nella suggestiva cornice della Biblioteca Villino Corsini di Roma, lo scorso 23 febbraio, ho avuto l’occasione di partecipare alla proiezione del film La vita cronica. L’opera – realizzata dalla film-maker Chiara Crupi e presentata in prima assoluta nella sua versione integrale – è la trasposizione dell’omonimo spettacolo dell’Odin Teatret, diretto da Eugenio Barba.
Quale è stata la sfida di Chiara Crupi nel cercare di testimoniare l’«incontro-scontro fra il linguaggio filmico e quello teatrale»? Perché, la sostanza è questa: come rendere possibile un’operazione di trasposizione tra due linguaggi profondamente differenti? E, soprattutto, si può documentare una messinscena, agita e partecipata da attori in carne ed ossa che creano una relazione diretta con gli spettatori? Un «paradosso», afferma la regista. Un’antinomia, aggiungo, che ha avuto il tempo e la necessità di essere indagata per portare a termine un’impresa a dir poco “impossibile”: cercare di dare corpo e anima alle azioni, ai pensieri, alle energie, ma anche ai sogni, alle illusioni, alle suggestioni e alle attese di quegli uomini e di quelle donne che «con retroterra diversi si ritrovano insieme e si scontrano pressati da guerre, disoccupazione, emigrazione». La vita cronica, infatti, si svolge contemporaneamente in Danimarca e in altri Paesi d’Europa nel 2031, dopo la terza guerra civile.
La speranza e il desiderio di libertà vagheggiati dai personaggi per costruire il proprio presente, sembrano essere stati gli stessi di Chiara Crupi. Prendendo parte alle oltre venti repliche dello spettacolo in Italia e in Danimarca per diversi anni, la film-maker è stata capace di “fissare” l’identità dei personaggi con una “chiarezza complessa”. La stessa auspicata da Barba. Perché, se si guarda al teatro, c’è bisogno di entrare fin dentro quella “distesa di ghiaccio pietrificata” e rompere l’immobilità che ci costringe alla rassegnazione senza offrirci l’opportunità dell’illusione.
«Mi piacerebbe che i miei spettacoli fossero come correnti di mare, non come panorami immobili», sostiene Barba. Chiara Crupi, nel suo film, insegue con coerenza, questa fluidità. Ci restituisce, realizzando il montaggio del film insieme al regista, la corrente energetica di parole, suoni, canti, azioni degli attori, sempre cariche di profonda vitalità e costantemente in grado di entrare nel ritmo “incomprensibile” di una storia, la nostra storia, che non vuole essere rassicurante, bensì «dare forma e credibilità all’incomprensibile e agli impulsi». È seguendo queste tracce che la Crupi – insieme al film-maker dell’Odin Claudio Coloberti, responsabile degli archivi audiovisivi della compagnia – ha diretto le differenti fasi delle riprese con l’obiettivo originale di documentare lo spettacolo. Quando, successivamente, nella fase di montaggio, è intervenuto Eugenio Barba, il lavoro si è trasformato: «mi sono presto resa conto», ha dichiarato la Crupi nel corso della presentazione del film, «che Eugenio stava cercando non di documentare uno spettacolo, bensì di ricrearlo». La vita cronica è, così, diventata qualcosa di diverso. Un’opera che ha subìto delle trasformazioni, perché di fatto si poneva l’esigenza di “tradurre”, attraverso il linguaggio filmico, l’essenza autentica della messinscena. Il suo essere prepotentemente dentro un presente senza speranza, eppure avvolta da un’aura poetica che quella stessa speranza cerca di rincorrere con la meraviglia e lo stupore dei suoi protagonisti. «Non credo che il mio compito nel teatro consista nel fornire un’interpretazione attendibile che gli altri hanno narrato», afferma Barba, «Non credo neppure che consista nel mostrare delle vie d’uscita dalla morsa in cui ci sentiamo intrappolati. Anche se volessi farlo non ne sarei capace. Credo all’impegno verso un altro compito: dare forma e credibilità all’incomprensione e agli impulsi che sono un mistero anche per me, trasformandoli in una matassa di azioni-in-vita da offrire alla contemplazione, al fastidio, alla ripugnanza e alla misericordia degli spettatori».
Il film ha il valore di penetrare il mistero cui allude il fondatore dell’Odin e di entrare nel «magma buio e incandescente dell’individuo», facendo percepire a ciascuno di noi la differenza tra il conoscere e il comprendere come ha sottolineato a conclusione della proiezione il Professore Franco Ruffini. Perché se il conoscere e il capire attengono alla sfera razionale, a una funzione della mente, il comprendere è qualcosa che avviene in profondità, nel cuore dell’essere, in quell’ambito, “segreto” e inesplorabile, che può aprire nuovi orizzonti e avere la forza di trasformarci.