Tra gli autori italiani di teatro più fortunati del momento si annovera di sicuro Edoardo Erba. Il suo Maratona di New York è stato tradotto in diciassette lingue e diventato popolare anche grazie all’interpretazione di personaggi amati dal grande pubblico come Edoardo Purgatori (regia di Maurizio Pepe) o Fiona May (diretta da Andrea Bruno Savelli). Erba, formatosi alla scuola del Piccolo Teatro di Milano frequentata negli anni Ottanta, insegna drammaturgia all’Università degli Studi di Pavia e all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio d’Amico” di Roma. Un suo testo molto particolare, Nove, andrà in scena dal 19 al 24 marzo al Teatro Vittoria di Roma, interpretato da Claudia Crisafio e Massimiliano Franciosa, diretti da Mauro Avogadro. Nove consta di nove micro-commedie slegate tra loro, di cui sono protagonisti un uomo e una donna. Al centro di ciascuna, situazioni quotidiane concrete in cui la realtà si flette per far decollare delle vicende umane che sconfinano rapidamente nel surreale.
Ci è sembrata questa una buona occasione per dialogare con Edoardo Erba: non solo per entrare in contatto con questo spettacolo, Nove, e farci raccontare quale tipo di sfida esso rappresenti per il regista, ma anche – aspetto che forse ci sembra oggi ancora più importante – in virtù di quel ruolo di maestro contemporaneo che il tempo sembra inconsapevolmente affibbiargli, per domandare a lui che cosa significhi “insegnare a scrivere” per la scena. E quante possibilità di successo hanno gli allievi dei master e dei corsi di scrittura creativa presso scuole e accademie dal riconosciuto valore di iniziare a essere parte attiva sul mercato del lavoro.
In Maratona di New York e in Nove si possono identificare alcuni punti cardinali: la presenza di due interpreti in scena, degli elementi di surrealtà e, soprattutto, un certo clima di “sfida”. Se nel primo caso, però, la sfida riguardava soprattutto gli attori, ed è fisica, perché nel “qui e ora” dello spettacolo si svolge un’ora di corsa sul posto, in Nove la sfida coinvolge anche quelle figure a priori rispetto alla performance: l’autore e il regista dello spettacolo. Una prova impegnativa sia dal punto di vista attoriale, questo testo, sia – e forse soprattutto – dal punto di vista mentale, intellettuale. È una sfida immaginarlo, un testo come Nove, ma anche metterlo in scena. Che cosa l’affascina di questo aspetto del testo drammaturgico, di questo lieve, chiamiamolo così, “sadismo”, il piacere di mettere in difficoltà gli attori e il regista, che qui si trova costretto a cercare soluzioni creative per risolvere i cambi di scena di nove quadri molto dissimili tra loro?
Credo di essere l’autore che ha scritto più testi a due di quelli che sono in circolazione in questo momento. Ne ho scritti molti e ne avrò uno, Maurizio IV – Pirandello Pulp, che andrà in scena al prossimo Napoli Teatro Festival. Non dico che è la mia specialità, questa di scrivere testi per due attori, ma mi son trovato per caso a scriverne molti, e Nove è uno di quelli. Nove è, a dirla tutta, una “raccolta” di testi: sul computer, infatti, ho un “quaderno” in cui segno tutte le idee che mi vengono in mente per possibili commedie. Ne avevo alcune che non sono mai diventate una commedia, e allora mi son detto: «perché non fare di ciascuna di esse almeno una micro-commedia, provando a sintetizzarle in un testo brevissimo?». È partita così questa sfida di Nove. Con protagonisti un uomo e una donna, nove idee; che avrebbero potuto essere nove commedie, e invece sono diventate nove scene. Molto diverse fra di loro, le unisce il mio stile, che è quello che ha detto: un po’ di sadismo, un po’ di surrealtà, un po’ di umorismo. Chiaro, questo mette in difficoltà il ruolo del regista, ma Mauro Avogadro è stato bravissimo. Lo ha aiutato Ginevra Napoleoni, che ha fatto i filmati che vengono proiettati durante e tra una scena e l’altra. È riuscito a dare a questo collage di nove scene il sapore di uno spettacolo. Uno spettacolo di cui sono molto contento: proprio perché si tratta di micro-drammi, si vede meglio il modo particolare con cui io affronto i testi, i soggetti e i personaggi.
Quanta responsabilità attribuisce al regista dei suoi spettacoli? Segue sempre scrupolosamente il lavoro di messa in scena, avviene sempre un confronto preciso con chi cura la regia, oppure preferisce l’”effetto sorpresa”?
Con i registi c’è un rapporto personale. In questo caso, con Avogadro siamo andati d’accordissimo. Ci siamo scambiati qualche idea, dopodiché io non ho partecipato assolutamente alle prove, sono andato alla prima e ho visto lo spettacolo. Nei casi migliori succede così, anche perché l’autore è una sempre figura un po’ ingombrante; io lo so, e preferisco, se mi fido del regista, starmene da parte. Quando intervengo è perché la fiducia nel regista è caduta e sento che occorre un intervento, ma non è stato questo il caso. Il regista ha agito con massima libertà, facendo un ottimo lavoro.
Quando è rimasto molto soddisfatto dalla trasduzione scenica di un suo testo e da che cosa era dipesa quella soddisfazione? Le è mai capitato di non gradire la messa in scena di un suo spettacolo che, viceversa, è stato molto apprezzato dal pubblico? Che cosa succede (se è capitato) o che cosa farebbe, in quel caso? Quanto, in generale, si lascia influenzare dal giudizio del pubblico?
Quasi sempre capita che siano gli stessi attori a chiamarmi per un pronto soccorso, a dirmi «questo regista ci sta facendo deragliare, dacci una mano». Avendo fatto anche io delle regie, anche se non mi sento propriamente un regista ma un autore che si è messo in scena più volte, per lo meno dei miei testi so come si potrebbe fare una regia, ma ho sempre l’idea che un altro regista lo farebbe meglio di me, e quindi li affido volentieri. Se, però, si vede che la barca sta andando verso un naufragio, chiamato dalla produzione spesso intervengo, e quasi sempre quando è così si creano delle situazioni non simpaticissime, però se ne esce, almeno in teatro. Non è stato, però, il caso di Nove, perché l’accordo con Mauro Avogadro è stato massimo. Di solito va così, anche perché prima di scegliere un regista ci si ragiona un po’, si chiacchiera, si cerca di capire se ci si intende, dopodiché penso che un regista debba lavorare in libertà. Il “valore aggiunto” che viene dato al testo, quello della sua lettura e della sua personalità, mi affascina molto, mi piace vedere poi che cosa si è riusciti a tirare fuori. Non sono contro la regia, anzi, apprezzo moltissimo il lavoro dei registi sui miei testi. Per esempio, ho fatto quattro lavori con Serena Sinigaglia, di cui l’ultimo è stato Rosalyn. Con Sinigaglia c’è più che un accordo, c’è proprio un amore totale. Quando Serena ha fatto una regia superba, un bellissimo spettacolo, con il mio testo Utøya, non ho potuto che ringraziarla. Io e Serena lavoriamo molto tempo prima; poi, quando lei comincia la regia io non vado più alle prove fino al debutto. La lascio libera di fare, perché con lei la fiducia è totale. Anche il lavoro precedente a una collaborazione è grosso, perché consente all’autore di affidare il suo testo al regista senza remore.
Lei insegna “Scrittura per la scena e per lo schermo” all’Università di Pavia e al Master in Drammaturgia e sceneggiatura dell’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio d’Amico”. Che valore ha, per lei, l’insegnamento? E che influenza ha secondo lei l’insegnamento della scrittura creativa nel panorama italiano contemporaneo?
All’Università di Pavia, il corso, inserito in un percorso di laurea magistrale, è concentrato in un mese, e devo dire che ci insegno sempre più volentieri. Gli studenti che vengono a farlo non necessariamente vogliono diventare degli scrittori, sono per lo più “incuriositi”. Si tratta di persone molto in gamba e anche con molta voglia di “giocare”. Lì ottengo in genere risultati, in proporzione, migliori, proprio perché non c’è la tensione a voler diventare scrittori. Ci si diverte, è un corso abbastanza leggero. Più difficile per me alla “Silvio d’Amico”, dove il corso è bellissimo, ma quelli che s’iscrivono al master in drammaturgia e sceneggiatura vogliono a tutti i costi diventare scrittori. Devo dire che i risultati finali di questo corso sono brillanti, perché molti degli allievi che sono passati in questi anni sono poi diventati professionisti del settore, tra chi ha pubblicato un romanzo, chi è diventato sceneggiatore di una serie televisiva, ecc.… In generale, in questo corso io mi diverto un po’ di meno, perché qui gli allievi sono un po’ più bloccati dall’ansia, dal timore di non riuscire a realizzare le proprie ambizioni, e ciò li porta a lasciarsi anche di meno andare durante il percorso formativo. Per quando riguarda se “si può insegnare” la scrittura: certamente, si può insegnare la scrittura un po’ come si insegna a giocare a calcio, ma bisogna partire già da un’ottima predisposizione. Se uno fa degli errori di sintassi, se ha visto e letto poco, se ha una fantasia bloccata, l’insegnamento serve a ben poco per avere fortuna. Si può lavorare bene con persone già molto predisposte e che lavorano già da qualche tempo per conto proprio: allora la qualità del lavoro degli allievi si può migliorare, attraverso l’esercizio, i consigli e il tutoraggio. Negli anni Ottanta, io stesso sono stato allievo presso l’allora scuola di teatro del Piccolo di Milano e facevo il primo corso di drammaturgia italiano. È stato un corso utilissimo, ma già scrivevo, avevo fatto delle cose in radio per la Rai, radiodrammi e altre di questo genere. Non partivo da zero, ero già predisposto per questo lavoro, e sicuramente le lezioni mi hanno molto aiutato. Se un allievo non è assolutamente predisposto alla scrittura, perde solo del tempo.
Insisto ancora su questo tema. Che cosa consiglierebbe a chi non può permettersi di finanziarsi un corso di formazione adeguato, ma ha talento e il sogno nel cassetto di scrivere per la scena?
Esistono dei modi per farsela da solo, la scuola. Per esempio, esistono dei manuali di sceneggiatura americani, tradotti anche in italiano, che sono molto chiari e utili. Consiglio, inoltre, di andare a teatro e, soprattutto, leggere molta drammaturgia: così si coglie istintivamente la struttura astratta di un testo necessaria per scrivere. Io credo che il teatro sia prima di tutto una struttura astratta. C’è un’architettura invisibile sotto ogni commedia, anche quella che sembra più bassa. Non sempre le altre forme di scrittura hanno dentro un’architettura così potente, perché il teatro è una macchina che deve funzionare, dunque ha bisogno anche di un lato ingegneristico. Se non si ha la possibilità di finanziarsi un corso di scrittura creativa, quest’architettura astratta deve dedurla dagli altri scrittori. Ed è una cosa che si può fare, non è impossibile. Ci sono stati, anzi, drammaturghi autodidatti che hanno avuto molto successo. Aiuta anche la pratica teatrale, provare a essere a diretto contatto con il teatro: scrivere e mandare il copione. Se non si vuole anche mettere in scena i propri testi, che resta la migliore delle scelte possibili, tentare per lo meno di seguire passo dopo passo una messa in scena, perché da lì si comprende molto di come funzionano certi meccanismi teatrali. Ecco, questo è quello che sento di consigliare.