In occasione dell’ultimo spettacolo, Ad esempio questo cielo, della compagnia livornese Dimitri/Canessa, in scena in anteprima italiana – dopo quella svizzera al Theaterwerkstatt Gleis 5 di Frauenfeld – fino al 7 aprile al Teatro della Contraddizione di Milano, ho avuto l’occasione di incontrare la regista Elisa Canessa per rivolgerle alcune domande sulla nuova produzione, dedicata all’universo poetico di Raymond Carver. Un mondo “frammentario” in cui l’autore, con un linguaggio discorsivo e minuzioso, semplice e immediato, esprime il desiderio autentico e “commosso” di entrare a far parte della complessità dell’esistenza. Malgrado un cancro che divora il suo polmone, Carver è capace di fissare con le sue parole, prive di artifici linguistici, il senso profondo della vita. La morte imminente è percepita come un flusso sconfinato di immagini e di visioni di grande liricità. Una possibilità, forse l’ultima, di testimoniare la forza della poesia, fonte inesauribile di creazione e di libertà.
Come è nata l’idea di Ad esempio questo cielo? E perché la scelta di partire dalle poesie di Raymond Carver?
Per quanto riguarda il nostro lavoro, è raro che la scelta di un autore avvenga in modo razionale. Esistono dei temi di cui sentiamo in quel momento la necessità di parlare, e si avanza in un territorio che inizialmente appare immenso: moltissimi autori possibili, riferimenti, testi di natura anche molto disparata, alle volte. E allora si scava, si procede in un percorso di sintesi. Alla fine, le maglie della rete divengono sempre più strette. E diventa chiaro che cosa vi è rimasto impigliato. In questo caso, si trattava di Raymond Carver. Ma non il Carver noto ai più, quello dei (se pur meravigliosi) racconti. Raymond Carver, per tutta la sua vita, ha affiancato la sua opera di narratore a quella di poeta. Ed è proprio nelle sue poesie che abbiamo ritrovato gli strumenti, le parole, le immagini per questo nuovo progetto.
Carver è un autore che è riuscito a stento ad evitare una morte per alcolismo e che continuava a scrivere con un tumore al cervello e due terzi di un polmone divorati dal cancro. Eppure, consapevole di non avere più molti giorni da vivere, dichiara imbarazzato in un’intervista che ogni sua poesia dovrebbe intitolarsi Felicità. L’ultimo periodo della sua vita è una frenetica corsa alla registrazione, alla conservazione, lavora incessantemente alla stesura del volume che raccoglierà tutte le poesie di una vita. Questo è stato il dato concreto, il punto di partenza, per Ad esempio questo cielo.
Qual è, se c’è, il filo conduttore che lega Ad esempio questo cielo ai precedenti spettacoli Bruno e …di Giulietta e del suo Romeo ?
Ognuna delle nostre produzioni è in qualche modo legata a doppio filo con la precedente, in un percorso personale artistico che ci porta inevitabilmente dall’una all’altra. Una sorta di “discorso interiore” che prosegue nel tempo. È però altrettanto vero che quando la materia, il tema, il cuore della nuova produzione si manifesta, attorno ad esso tutto si modifica. E ogni volta affrontiamo una vera e propria ridefinizione di noi stessi. Per questo, in qualche modo, i nostri spettacoli sono anche molto “diversi” l’uno dall’altro.
In ordine cronologico la nostra ultima produzione è stata Hallo! I’m Jacket! Il gioco del nulla, nella quale abbiamo espresso, seppur in chiave ironica, un sentimento di profondo disagio, di critica e malessere nei confronti del cosiddetto “mondo contemporaneo” con la sua rapidità da fast food mediatico, cultura usa e getta e ansia performativa. Il risultato è stata la ridicola caricatura di un mondo zoppo, ma che corre trafelato verso il successo. Un successo qualsiasi. Un mondo paradossalmente svuotato di senso e di contenuto. Di amore e di poesia.
Ad esempio questo cielo è nato in Svizzera grazie al Theaterwerkstatt Gleis 5. Perché non in Italia?
In realtà Ad esempio questo cielo nasce come co-produzione tra la nostra compagnia (che è una compagnia indipendente) e la Theaterwerkstatt Gleis 5. Le prove sono state fatte in parte a Livorno presso Wintergarten, che è il nostro spazio di creazione a Livorno e il teatro svizzero. L’idea della co-produzione nasce principalmente dal desiderio di lavorare con Andrea Noce Noseda, attore con il quale avevamo già collaborato in altri progetti elvetici, nonché fondatore appunto del Theaterwerkstatt Gleis 5. Inoltre Federico Dimitri è nato e cresciuto in Svizzera, e ad oggi la nostra compagnia porta avanti alcuni importanti progetti di formazione sia a Zurigo che presso l’Accademia Dimitri in Ticino. Insomma, quello con la Svizzera è un legame che prosegue nel tempo e che non è legato esclusivamente a questa produzione.
L’ultima messinscena che dirigi è nata non solo in Svizzera ma anche in lingua tedesca e poi tradotta in italiano. Quali sono state le tappe di creazione drammaturgiche e registiche?
Da subito l’idea era quella di dar vita a uno spettacolo che potesse poi girare sia in Italia sia in Svizzera sia in Germania. Federico Dimitri e Andrea Noce Noseda sono entrambi perfettamente bilingue, e questo era sicuramente un fattore necessario. Io no, purtroppo, e la creazione, nella quale ho inizialmente proposto una selezione di testi molto più ampia di quella che poi è rientrata nella drammaturgia dello spettacolo, è quindi avvenuta interamente in italiano. Soltanto una volta “chiusa” la scrittura scenica, abbiamo lavorato alla traduzione tedesca, cui ci siamo poi interamente dedicati nell’ultima parte delle prove.
Federico Dimitri e Andrea Noce Noseda sono i due attori della pièce. Che tipo di lavoro hai fatto con loro?
Per lo spettacolo avevamo un punto di partenza molto concreto: in questo non-luogo che è per noi lo spazio della scena abbiamo immaginato un uomo a pochi istanti dalla propria morte. Un tempo brevissimo per fissare per sempre nella memoria tutta una vita, reale o immaginata, i personaggi delle opere, tutti gli amori, quel sentimento di morte costante. e tutte, ma proprio tutte le poesie. Il lavoro è stato innanzitutto molto incentrato sulla lettura delle oltre seicento poesie, di tutti i testi, i racconti, le interviste. Era fondamentale che i due attori conoscessero Carver nel profondo. Come avevo immaginato – e sperato – si sono entrambi intimamente innamorati di questo autore. Di pari passo, abbiamo portato avanti un lavoro di improvvisazione e riscrittura quotidiana, in un percorso che, anche in questo caso, puntava alla sintesi. Che cosa, di tutto quel materiale, sopravviveva nonostante tutto?
Il risultato è un flusso inesauribile di parole, immagini, dettagli, che si stratificano aprendo inaspettati spazi di libertà. Spazi di creazione nel quale le poesie si fondono e si confondono con lo spazio concreto della vita.
Che relazione hai istituito tra l’impianto scenico e le immagini che nutrono l’universo di Carver?
Fin dall’inizio l’idea era quella di avere uno spazio mobile. I personaggi di Carver sono molto spesso in uno stato alterato, lui stesso ha trascorso la maggior parte della propria vita da alcolista. Inoltre, avevo l’intenzione di lavorare con tempi cronologici non coerenti con la realtà e di immaginare lo spazio scenico come una sorta di “luogo della mente”. Per questo abbiamo fatto realizzare una pedana girevole, regolabile su varie velocità e in grado di andare nelle due direzioni. Su di essa, gli attori si muovono, recitano, danzano. Il corpo è costretto ad adattarsi continuamente alle diverse velocità. Il pavimento sfugge sotto i loro piedi, come succede, banalmente, se si è ubriachi, o metaforicamente, quando il tempo sta scorrendo via velocemente e quelli che si rincorrono sono gli ultimi istanti di vita.