La bellezza degli allestimenti (più di duecento), prolungamento di un pensiero in continuo movimento, l’inconfondibile direzione d’attore, la creazione stratificata dell’oggetto scenico, hanno fatto di Luca Ronconi un maestro riconosciuto in tutto il mondo. Pochi hanno avuto però il privilegio di frequentarlo nella vita privata, di conoscere il lato timido, pudico, intrattabile, a volte persino smarrito, del grande regista romano (nato però a Tunisi nel 1933), che ha legato il suo nome anche alla direzione degli stabili italiani, da Roma a Torino fino a Milano. A cinque anni dalla sua morte, le oltre 400 pagine di un libro pubblicato da Feltrinelli ci fanno conoscere non solo il lato più nascosto di Ronconi, ma ci consegnano una mappa cosmogonica di un genio al lavoro. Di fronte ad una platea affollata e assorta, Prove di autobiografia è stato presentato (il 18 aprile scorso) al Teatro Argentina di Roma, in presenza del direttore artistico dello stabile capitolino Giorgio Barberio Corsetti e di tutti coloro che hanno reso possibile questa impresa culturale che disegna con passione e precisione una delle figure più importanti del Novecento teatrale: il curatore Giovanni Agosti (docente e critico d’arte), Maria Grazia Gregori (giornalista e critica teatrale), Roberta Carlotto (erede dell’Archivio Ronconi e direttrice del Centro Teatrale di Santa Cristina, fondato nel 2002 assieme al maestro e amico). All’incontro hanno partecipato anche Massimo Popolizio (l’attore-artista simbolo del lavoro ronconiano in palcoscenico) e lo scrittore Emanuele Trevi.
Un’occasione di confronto discreta e vibrante, affidata ai toni sommessi di una parola testimoniale che, nel tentativo di scartare l’agiografia, ha cercato di restituire come prima cosa l’affetto e la gratitudine per l’essere stati accanto a Ronconi in una o varie fasi della sua vita artistica.
Negli anni in cui frequentava l’Accademia d’Arte Drammatica, Giorgio Barberio Corsetti conobbe Ronconi, riconoscendolo immediatamente come “maestro” anche per la maniera in cui si presentava al mondo: «Mi piaceva il suo modo sommesso, così poco irruento, che poi coincideva con il mio». Nasce da lì “la vocazione teatrale” di Corsetti: «È stato lui il colpevole, quello che mia ha contagiato».
Emanuele Trevi ci ha lavorato una sola volta, ma il suo racconto ci permette di entrare subito nel laboratorio immaginativo del regista, di vederlo nella sua officina fatta di carte e parole pronte a farsi elementi della natura: «Ho avuto l’onore di lavorare come drammaturgo alla messa in scena dell’Odissea» – ricorda lo scrittore romano – «Ronconi non aveva quel gergo affettivo che era così comune tra le persone del nostro mondo, e a volte io non sapevo come dovevo parlargli. Ma posso dire che quella è stata una delle esperienze più importanti della mia vita. Era straordinario il modo con cui lui entrava in contatto con i materiali, come li accoglieva, li rifiutava, li orchestrava. Per fare quel lavoro, siamo entrati in contatto con una costellazione di testi di carattere religioso, orfico. Fotocopiammo intere biblioteche. E poi, alla fine, quando lo spettacolo fu pronto, rimasi sbalordito nel vedere come l’idea dell’interpretazione, nell’atto creativo, si rovesciasse in un’idea di relazione».
Consapevole del fatto che il suo nome sarà per sempre legato a quello di Ronconi, Massimo Popolizio ha disegnato poi, in poche immagini, lo sforzo titanico di un maestro “impietoso” che non accettava nessuna caduta d’attenzione, nessuno svenimento scenico: «Leggo questo libro come un ponte che mi aiuta a capire meglio quello che è successo dopo gli anni Novanta. Tutta questa vita, tutta questa ricerca di senso, gli erano necessari per andare contro la morte, per combattere la paura dell’annientamento. È una questione di energia, di intelligenza. Per questo il libro non è triste, ma un ponte verso un uomo che ha recitato fino all’ultimo. Ora capisco meglio alcune cose: lui soffriva di alcuni disagi che gli impedivano di tollerare i disagi degli altri. Ma soprattutto mi dico: se un genio come lui aveva queste sofferenze, allora anche noi esseri umani normali possiamo permetterci di averle».
I disagi ai quali accenna Popolizio sono narrati con delicatezza fin dalle prime pagine del libro: la solitudine dell’infanzia, l’abbandono del padre, la presenza di una madre intellettuale e austera, gli anni del collegio in Svizzera: «Non mi aspettavo da nessuno il bacio della buonanotte». Ma a chi parla Ronconi? Chi è il destinatario di queste sue inedite confessioni?
La storia della gestazione di questo libro è un romanzo a sé. È il 1993 quando Maria Grazia Gregori, sotto sollecitazione di Franco Quadri, incontra Luca Ronconi (che nel frattempo era diventato suo amico), con lo scopo di registrare le memorie del regista e di pubblicare per la Ubulibri un’autobiografia del maestro. «Per un anno e mezzo, ogni fine settimana, ci vedemmo per lavorare al libro. Io gli facevo delle domande, lui non rispondeva a tutte, ma poi io trovavo sempre il modo di tornare sull’argomento» – racconta la giornalista milanese – «È stato un lavoro stretto, molto intimo. Un bel giorno, quando era arrivato il momento di chiudere, ci sono stati degli incontri a tre che non consiglierei di vivere al mio peggior nemico. Quadri e Ronconi non erano d’accordo su molte cose. A quel punto io ho rinunciato. Con molto dolore. Arrivai a strappare la mia copia».
Passano molti anni. Nel frattempo scompaiono sia Quadri (2011) che Ronconi (2015). Roberta Carlotto, che eredita l’archivio di Ronconi, trova una copia di quel dattiloscritto con annotazioni fatte da due penne diverse, Maria Grazia Gregori e Franco Quadri. «Intravedo in quelle pagine un Ronconi che sfugge a qualunque definizione». Così telefona alla giornalista milanese. Lei accetta che quei materiali siano pubblicati ma non vuole rinnovare l’antico dolore, preferisce non rimetterci le mani. Ed è così che si arriva a Giovanni Agosti, storico e critico d’arte che aveva anche collaborato con il regista romano. Inizia per lo studioso milanese un lavoro matto e disperatissimo. «Le memorie si fermano ai primi anni Novanta, quando Ronconi aveva sessant’anni. Bisognava rendere conto di quello che sarebbe accaduto negli anni a venire e puntualizzare alcuni passaggi storici. Ho creato così delle note ipertrofiche che cercassero di dare un senso e un contesto ad alcune allusioni, a certe frasi. C’è stato un lavoro di verifica su tutti i dati, ma volevo che alla fine fosse un’opera aperta, così come aperta era l’opera di Ronconi» spiega Agosti.
Questo primo livello romanzesco apre il secondo, labirintico percorso di storie private e artistiche che si radunano attorno alla figura di Luca Ronconi, e sembra di riascoltare la grana della sua voce, quel suo modo di parlare quasi timido che rivelava, nascondendolo, la visionarietà di un pensiero architettonico allenato sui respiri della ricerca sperimentale.
Coloro che hanno amato gli spettacoli di Ronconi, troveranno la meticolosa ricostruzione dei percorsi che hanno portato alla nascita di spettacoli entrati nella storia come Orlando furioso, Gli ultimi giorni dell’umanità, le messinscene dei tragici greci, L’affare Makropulos. Ma è possibile andare più indietro, oltre il debutto con I Lunatici, alle prime prove d’attore, fino al punto di partenza, all’origine di tutto, alla formazione di una mente prodigiosa, all’esperienza solitaria, quasi ascetica, di un Ronconi bambino che già a quattro anni era in grado di leggere e che a quindici aveva divorato tutti i classici della letteratura straniera che si trovavano nella biblioteca materna.
Fin da piccolo, Luca impara a prendere i treni da solo e a controllare la propria affettività, a non mostrare il disagio. Bambino silenzioso, diventa un adolescente arrogante, infine un lavoratore instancabile, un amico accentratore ma fedele, un single con compagni e compagne tenuti nell’ombra, un intellettuale come non se ne vedevano dal Rinascimento, sperimentatore ostile a qualunque gabbia metodologica, refrattario alle poetiche, innamorato dell’empirismo filologico.
Nella sua cura devota e illuminata che si avvale anche di fotografie che si vedono per la prima volta, Giovanni Agosti ci invita a leggere gli innesti tra pubblico e privato, spingendoci a trovare il senso di certi progetti inconclusi che hanno affollato una mente così fertile. Il lavoro ostinato della memoria, l’oscillazione tra una vocazione quasi ottocentesca alla catalogazione e l’istinto furioso alla distruzione tipico di chi non si accontenta mai, il motivo della ricerca del Padre, disegnano il crinale interpretativo di questa ricostruzione biografica che appassionerà sia i cultori ronconiani che i lettori di belle storie tout court.
Sono pagine concepite come una partitura musicale, nate, ed è importante ricordarlo, dall’incontro sincero, amicale, disarmato, tra due amici, un uomo e una donna, Luca e Maria Grazia. Ognuno ci troverà anche quello che non immaginava di trovare di Ronconi e del suo teatro, concepito come grande laboratorio dello spirito. L’importante è essere pronti per il viaggio, che non ci risparmierà l’incontro con certi aspetti quasi demoniaci, di certo radicali, di una figura ineguagliabile del Novecento, di un uomo che ha vissuto nella consapevolezza che la ricerca artistica, prima di scaricarsi in una dimensione apollinea, deve saper arrendersi alla violenza, all’imponderabile, all’opera anarchica e incontrollabile del Caso: «La mia teoria è che tutto, ma proprio tutto, avviene per caso».
Luca Ronconi, Prove di autobiografia, a cura di Giovanni Agosti, Feltrinelli, Milano, 2019, pp.411, euro 25,00.