Nel tempo cupo in cui stiamo vivendo, si ha la sgradevole sensazione di aver intavolato un dialogo fin troppo familiare con la morte e, tanto più, con la morte degli anziani. Addii silenziosi, solitari, privati di carezze, lacrime, calore. Ogni persona che se ne va, oggi, se ne va nella diluizione di quei sentimenti e di quei riti antropologici fondativi che da sempre fanno del lutto un dolore personale e insieme sociale. Resta certamente la memoria a cementarne il ricordo, il vissuto, l’operato. Questa memoria è indelebile, sia nell’intimità dei cari sia nei rivoli della collettività. Questa memoria deve giocoforza rendere ragione alla scomparsa. Deve risarcirla in qualche modo. Deve essere così. E dovrà essere così anche per tre grandi figure del teatro contemporaneo che si sono spente il mese scorso a distanza di pochi giorni l’una dall’altra: Antonio Tarantino, Sergio Fantoni e Bruce Myers. Diversissimi per formazione, sensibilità, percorsi artistici, essi lasciano un vuoto enorme poiché hanno rappresentato, ciascuno secondo la propria traiettoria professionale, una luce importante della civiltà spettacolare dei nostri anni. Motivo per cui ricordarli non è solo un obbligo ma un onore.
Tarantino è morto in un ospedale di Torino il 21 aprile, a 82 anni. Aveva fatto una brutta caduta e il cuore ha ceduto. È morto solo, nella città dove si era trasferito con la famiglia, originaria di Bolzano, sin da bambino. È morto nel pieno dell’emergenza sanitaria che ha colpito il nord. Senza clamori. Senza grandi annunci. Un po’ come era sempre vissuto: schivo, introverso, allergico alle ipocrisie e ai perbenismi. Un’esistenza, la sua, illuminata da un fervore creativo eclettico, profuso prima nella pittura e poi nella drammaturgia, ma appesantita da una condizione economica molto difficile, cui da qualche anno cercava di porre rimedio il sussidio previsto dalla Legge Bacchelli. Fa un certo effetto saperlo simile, per certi aspetti, ai suoi personaggi più fragili, più dimessi, più emarginati. Ora che non c’è più la sua grandezza di autore appare ancora più grande. Era arrivato al teatro in età già matura conquistando la giuria del Premio Riccione Ater per il Teatro nel ’93 con due lavori semplicemente superbi: Stabat Mater e Passione secondo Giovanni, entrambi premiati con verdetto unanime per la novità dell’impianto drammaturgico e per «l’invenzione di una lingua teatrale» – si legge nel verbale stesso della Giuria – «missaggio di piemontese da marciapiede, lombardo arcaico e italiano vessato; lingua straordinariamente attiva e significativamente coerente alla lettura del sacro nel nostro quotidiano (…)». Il successo dei relativi allestimenti – su regia di Cherif – fu immediato e qualche anno dopo quelle due prime opere, insieme con le successive Vespro della Beata Vergine e Lustrini, confluiranno nella raccolta Quattro atti profani, edita dalla Ubulibri. Ondeggia infatti tra sacro e profano la visionarietà pietosa e compassionevole con cui l’autore guarda gli ultimi della Terra, rovesciando nelle loro storie disperate tutta la disperazione evangelica e, insieme, la laicità di un Cosmos senza certezze. La sua lingua sghemba, ruvida, diretta, ma estremamente lirica rimarrà per sempre la cifra unica e personale di un drammaturgo che non ha mai smesso di porsi domande universali, di guardare alla politica, alla Storia, alla società. Basti citare titoli come Materiali per una tragedia tedesca, La casa di Ramallah, Stranieri, Conversazioni, La pace. E appartiene proprio ad una recente messinscena di Stranieri diretta da Gianluca Merolli il mio ultimo incontro con il suo teatro. Si parlava di morte. Ma il tema apriva una voragine di quesiti sull’identità, gli affetti, la memoria, la paura dell’altro, l’amore. Cosa resta di noi dopo la nostra dipartita dalla Terra? Abbiamo conosciuto nel profondo i cari con cui abbiamo trascorso l’esistenza? Siamo realmente capaci di amare? Di accettare il finito, l’assenza, la fragilità? Ma guai a leggere queste questioni come tragici cul de sac. Tarantino ripeteva spesso che «non c’è nulla di prevedibile nella storia umana (…) ma che c’è un senso nelle cose e non bisogna disperare».
Molto probabilmente Sergio Fantoni avrebbe condiviso in pieno queste parole. La sua lunga vita e la sua ricca carriera sono costellate da cambiamenti, azzardi, virate, nuove rinascite sempre coraggiose, mai disperate. Prossimo ai 90 anni, è morto in un ospedale romano il 17 aprile dopo un’operazione al femore che sembrava riuscita. Invece, ha chiuso gli occhi improvvisamente, quasi in sordina. Con quel garbo che lo caratterizzava da sempre. Gentile nei modi e nelle relazioni umane, interprete dallo stile recitativo misurato, sobrio, persino asciutto, con lui se ne va uno dei più grandi attori della scena italiana del secondo Novecento. Un artista a tutto tondo, capace di spaziare nei generi più diversi e di passare con disinvoltura dal teatro al cinema, dalla televisione al doppiaggio, dalla radio alla regia. Era figlio d’Arte ma i genitori lo avevano indirizzato ad una professione più solida e lontana dal palcoscenico. Già durante gli studi universitari, tuttavia, il richiamo della vocazione non gli lascia scampo: recita nei teatri estivi all’aperto, si propone come imitatore alla radio, frequenta i set di una Cinecittà fremente di pellicole peplum e colossal, entra nel cast di alcune prestigiose produzioni teatrali, lavorando con Vittorio Gassman, Luigi Squarzina, Lina Morelli, Paolo Stoppa. Poi arrivano un ruolo importante nella Medea di Luchino Visconti (era il ’53, protagonista Sarah Ferrati) e l’approdo al Piccolo di Milano dove conosce Valentina Fortunato, attrice amatissima da Giorgio Strehler, che Fantoni sposerà e con la quale condividerà esperienze artistiche e un’intera esistenza. Proprio con lei, Fantoni abbraccia peripezie rivoluzionarie e progetti sperimentali che hanno costruito la storia della nostra civiltà teatrale (quella più capricciosa e dunque più vitale). Negli anni Sessanta arriva, infatti, il sodalizio con Luca Ronconi e spettacoli scomodi, inconsueti, persino scandalosi quali, tra gli altri, I Lunatici degli elisabettiani Thomas Middleton e William Rowley e Il Candelaio di Giordano Bruno realizzato per la Biennale di Venezia del ’68. Il suo stile pulito, naturale, sottoesposto, quanto mai distante dall’enfasi ampollosa del grande attore italiano ottocentesco e dai cliché di una tradizione attoriale istrionica e roboante, gli apre presto anche le porte del grande cinema d’autore (recita per lo stesso Visconti, Renato Castellani, Roberto Rossellini, Giuliano Montaldo), quelle di Hollywood e quelle degli sceneggiati televisivi tratti dai capolavori della drammaturgia e della letteratura mondiali. Proprio qualche giorno fa la Rai ha mandato in onda il Mercante di Venezia che, su regia di Gianfranco De Bosio, dette a Fantoni ampia popolarità. Vi recitava il ruolo di Antonio, accanto a Gianrico Tedeschi, Andrea Giordana, Ilaria Occhini, Massimo Dapporto, Massimo Foschi e Lina Sastri. Un teatro al servizio del grande pubblico. Un teatro capace di arrivare a tutti. Nel segno di Shakespeare, certamente, ma nel segno anche di quella umiltà da artigiano del mestiere e di quel garbo da gran signore che hanno fatto di Fantoni un vero, indimenticabile Maestro.
Ė stato invece proprio il Coronavirus a spegnere la vita di Bruce Myers, attore “feticcio” di Peter Brook, grande interprete shakespeariano, regista, pedagogo, anch’egli indimenticabile Maestro. Se ne è andato il 15 aprile a Parigi, lo stesso mese in cui era nato settantotto anni fa. Come tutte le vittime di questo terribile virus che allontana e divide, se ne è andato in solitudine, lui che da ben cinquant’anni condivideva con l’ensemble diretto dal regista anglo-francese progetti, tournée e, tanto più, la visione di quel teatro immediato, semplice, diretto, umanissimo che ha segnato in modo determinante la storia della regia del Novecento. Si erano conosciuti nel ’70, quando Myers, già diplomato alla Royal Academy of Dramatic Art di Londra, lavorava per la Royal Shakespeare Company. Quattro anni dopo, l’approdo a Parigi e la nascita del Centro Internazionale di Creazione Teatrale del Théâtre des Bouffes du Nord. Dunque, un luogo, uno spazio che era casa, famiglia, comunità, scuola, rifugio creativo. L’inaugurazione fu affidata a un dirompente allestimento del Timone d’Atene in cui Myers interpretava il misantropo Alcibiade; seguirono lavori storici come Misura per Misura (1978), La Conferenza degli uccelli (1979), Mahabharata (1985), La Tempesta (1990), fino ai più recenti Amleto (l’attore inglese era uno straordinario Polonio), Love is my sin, ispirato ai sonetti del Bardo, Il grande inquisitore, tratto da I Fratelli Karamazov. Suona tuttavia un po’ troppo spicciolo ridurre la sua lunga carriera a qualche titolo: capolavori, certamente, ma la forza di questo attore dal volto scavato, gli occhi penetranti, la voce simile al suono di uno Stradivari, credo sia stata soprattutto nella capacità di tradurre in un magnetismo del tutto personale la necessaria immediatezza della comunicazione scena/platea. Era grande, Myers, nella misura in cui mostrava una spontaneità raffinatissima e misurata, mai sopra le righe, mai eccessiva. E non era autocontrollo, no: era metodo divenuto muscolo, pelle, voce, corpo. Lavorò molto anche per il cinema, recitò in spettacoli diretti da altri registi, firmò egli stesso diverse regie teatrali, tenne laboratori in numerose città del mondo. E costruì un legame molto stretto anche con il nostro Paese, collaborando, ad esempio, con il Piccolo Teatro di Milano, la Biennale Teatro di Venezia, l’Accademia Silvio D’Amico di Roma, la Scuola dello Stabile di Torino. Si dedicò molto, infatti, alla formazione dei giovani, perché era ben consapevole che non può esserci civiltà teatrale se non c’è trasmissione. Se non c’è memoria. I suoi seminari di pedagogia si basavano per lo più su esercizi di improvvisazione. E spesso i temi prescelti per una ricerca “organica” di se stessi erano proprio le relazioni, la famiglia, gli affetti, l’amicizia. Nulla di più vitale e di più distante dalla morte.