Caro Nando,
mi rendo conto nello scrivere queste righe di non potermi liberare anche io dall’impaccio dell’onomastica. Non è solo per la familiarità, quasi letterale, dei nostri rapporti, come di altri amici, che sei sempre stato un gerundio con funzione di nome. Qualcosa che avvicina quella persona mentre si sta allontanando con te in qualche altrove: un esercizio dell’immaginazione, una “chiacchierata” chilometrica, Nando, appunto.
Al funerale, usciti dalla chiesa, ho scherzato con Eugenio Barba. «Vabbè» – gli ho detto – «non ci può abbracciare, però possiamo prenderci a pugni». Ci siamo salutati mimando qualche colpo: un “gerundio affettivo” per te che non te ne eri andato, ma eri solamente morto. Le “finte”, invece, erano reali: avresti apprezzato la scenetta che scongiurava i musi lunghi e le fitte al cuore.
E prima, durante la messa, sai a cosa mi è capitato di pensare? Ad Achille Campanile. A quello che avevi scritto su di lui. E poiché quel pensiero mi era tornato con insistenza alla mente, arrivato a casa, ho ripreso in mano il libro (Uomini di scena, uomini di libro nella edizione accresciuta che io e Raimondo Guarino ti avevamo proposto per la collana Officina dei teatri, anno 2010).
L’ultimo capitolo, La scena sulla coscienza, dopo aver scritto di Pasolini, Macchia e Garboli, lo concludevi con uno saggio, appunto, su Campanile. Scrivevi di come il suo teatro brevissimo rispettasse le regole di una tradizione che non esiste e dunque uno se lo doveva immaginare su una scena invasa da un gruppo di «clowns-kabuki». Ecco, se di colpo fossero entrati in quella chiesa uggiosa e sconsolata, dove Dio se l’era data a gambe, e Cristo, convocato per l’eucarestia, ce lo possiamo figurare con l’aria afflitta di chi attende l’arrivo di un autobus romano, avrebbero potuto incarnare, come meglio non si sarebbe potuto, «l’allegoria di un congedo». Sono sempre parole tue, con le quali annunciavi al lettore perché quel pezzo su Campanile l’avevi posto a conclusione di quel volume.
L’ «allegoria di un congedo», che sarebbe anche un bel titolo per molti dei tuoi scritti, è una fuga sul posto, un modo per mandare a vuoto l’autobiografia per cederne l’incarico alla persona. E rileggendo quelle pagine mi sono reso conto di come vi avessi preso gusto a lasciarvi una tua araldica personale.
E dunque rivediamo cosa intendevi per La scena sulla coscienza:
«Se dovessimo parlare in termini artigianali, o metodologici, potremmo dire che è una lotta contro l’irrefrenabile tendenza dell’azione teatrale a trasformarsi in “opera” (letteraria, spettacolare o ideologica). Tenersi la scena sulla coscienza, infatti, vuol dire lasciarla allo stato fluido, impedirle di trasformarsi in qualcosa che possa essere contemplato e basta».
A me pare chiaro che il tuo “studiare teatro” equivalesse propriamente ad un’azione teatrale che lottava anch’essa contro l’irrefrenabile tendenza a cadere nel libro, nel saggio. Da qui quell’arte tua propria della accanita divagazione per tener d’occhio il rischio di accostarti troppo all’argomento mentre, intanto, danzavi sul tema. L’argomento poi sarebbe saltato fuori con una capriola improvvisa, inaspettata, vestito a nuovo, anche con una cert’aria da “chi la fa, l’aspetti”.
Dove avessi imparato ad esercitare quell’arte me la figuro legata alla militanza nel tuo altrove d’elezione, gli studi “nel” Seicento: dai tempi de La fascinazione del teatro, alla cosiddetta commedia dell’arte, Isabella Andreini, e poi Tasso, e via via in tutte quelle volte che ci sei tornato su.
Cosa ci sei andato a fare lì così spesso? L’hai suggerito tu stesso, ma per interposte persone.
«Credo che nella nostra cultura Cesare Garboli sia una figura speculare a Carlo Ginzburg. Nessuno, come quest’ultimo, ha saputo comprendere altrettanto profondamente l’affinità elettiva fra microstoria – che sennò resta accademica curiositas – e ricerca dell’autore su di sé, il proprio tempo e la propria persona. Benché nella scrittura rovesci il percorso, nel vissuto Garboli non parte dalla storia, ma vi approda, come per una liberazione. Riscrive ogni volta la dialettica che fonda la vocazione dello storico – quando c’è. Per lui la storia è ben lontana dall’essere una “maestra”. È la sua arcadia, la sua terra migliore? Migliore, si intende, solo perché in essa ferocia e porcherie sono comprensibili, o si può onorevolmente darsi da fare come se le si comprendesse? Comunque sia, è forse per questo che val la pena di tenersi la scena sulla coscienza».
Nella mappa della cultura italiana Cesare Garboli e Carlo Ginzburg sono stati i tuoi “dirimpettai”, alla maniera del celebre terrazzino di Questi fantasmi dove Eduardo conversava col casigliano di fronte. Lo so bene che questo non te lo saresti lasciato dire, ma approfitto della nuova situazione in cui ora ci troviamo perché lì, nella scena sulla coscienza, hai svolto la tua arte di tenere sempre desta quella persona che chiamiamo Nando: «A nutrirci non sono solo né soprattutto le corrispondenze con il tempo nostro, reale o presunto. Se di finzioni abbiamo bisogno non è tanto per riconoscerci, ma per conoscere. Per staccarci».
E allora, concludo ancora con parole tue:
«Niente è contemporaneo; niente è passato. Noi, di questa potenziale essenza del teatro possiamo solo sentire la mancanza. Gettati sulla nostra sponda dal continuo regredire dei tempi, forse non sappiamo più reggerci diritti sul crinale della sua doppia negazione».
Tu in piedi su quel crinale ci hai sempre danzato. Per questo, forse, tanto tempo fa, te ne andavi in giro sempre con un bastone, “fingendo” l’allegoria di una vecchiezza senza età o se vuoi, per dirla ancora con quel tuo Campanile, «per la burla d’uno sguardo da vegliardo o d’un cannocchiale infantile» che scopre il mondo alla rovescia.