Altri discorsi di danza: Brinchi, Karima DueG e Russolillo di Paolo Ruffini

Foto di Monia Pavoni

«Migrare non è un semplice movimento, ma uno scambio complesso di luogo che si compie nell’incontro con lo straniero. Chi emigra non chiede di circolare liberamente per il pianeta; spera piuttosto di essere infine accolto. Il suo è un gesto esistenziale e politico che ha una carica sovversiva» (1). Il concetto della migrazione – appoggiandoci al pensiero della filosofa Donatella Di Cesare – sembrerebbe compendiare un insieme di significazioni oltre lo specifico atto fisico dello spostamento da una parte all’altra del globo terrestre, che avviene spesso “illegalmente” (e sul concetto di legalità si dovrebbe ridefinire qual è lo spazio in cui l’individuo possa marcare una propria cartografia responsabile «senza un senso di controllo nella società high-tech», direbbe la teorica femminista Gayatri Chakravorty Spivak) ma, soprattutto, spesso alla mercé di intemperie umane, sociali e ambientali che determinano la sopravvivenza di chi si muove senz’ordine né autorizzazione. Questo transitare modifica inevitabilmente gli assetti dei territori da un punto di vista anche linguistico, scardinando il senso della percezione, spostando i modi di condividere esperienze in un alveo di prossimità e possibilità inattese, innescando così una irreversibile nuova definizione dei codici. Ormai persino in quella zona franca delle live arts in cui vigono a tutt’oggi molteplici tensioni di “protezione” delle forme storicamente acquisite, tutto sta accadendo, tutto è in transito. In quella risacca – per dirla in altri termini – impropriamente rivendicata come tradizione, laddove l’idea stessa di tradizione inevitabilmente porta con se nazionalismo identitario (e intorno al concetto di tradizione una volta per tutte si dovrà pur fare i conti) e arroccamenti, si compie il superamento delle “abitudini” nonostante le intemperie reazionarie di voler ri-abitare il teatro (la danza, la performance, eccetera), negando di fatto i deragliamenti novecenteschi che con la trazione sono scesi a patti da tempo nel ripensare immaginario e motivazioni linguistiche. Lo diceva Carl Schmitt che «il mondo foggiato dall’uomo è condizionato, fino al livello concettuale, dal recinto, dalla barriera, dalla frontiera» (2); oggi si tratta di rinegoziare il pensiero che non sia più soltanto quello bianco, maschio e coloniale. Decolonizzare la cultura, si diceva, e ce lo ricorda uno strepitoso Lilian Thuram che tutto, finanche la nozione di bellezza, abbisogna di essere ri-letto, smontato, rispetto a quel sistema di razzializzazione «che continua a costruire i discorsi, i riferimenti, ma anche gli immaginari e l’erotismo» (3), dunque anche il desiderio, in un perdurante atto di violenza e di separazione fra un “noi” e un “loro”. Paradossalmente, soltanto la macchina del Capitale a volte, non sempre, riesce ad appianare le diseguaglianze: quale sia il tuo colore o la tua religione non importa, ciò che conta è la capacità sistemica delle relazioni finanziarie che riesci a mettere in campo. If there is no sun è un lavoro scenico che ha debuttato recentemente nella sua forma ormai ottimale a Fuori Programma Festival diretto da Valentina Marini al Teatro India. 

Foto di Monia Pavoni

Una materia potente di indizi e trasfigurazioni che assomma narrazioni, ordigni sonori e corpi infranti nella memoria latente di una attualità che percuote e rivendica attenzione. Quel muro di Schmitt di abitudini razzializzate, quel movimento migratorio a suo modo rivoluzionario al quale allude la Di Cesare sembrano sintetizzarsi in questo lavoro corale che riesce a toccare con sensibilità non retorica né brechtiana (come gli spettacoli dal segno fortemente politico ambirebbero) ma poetica, invero tracciata di scarnificanti momenti pulsionali e visionari, perciò ancor più tagliente nella sua impostazione proprio nel non voler perseguire un canone cristallizzato, anzi smonta con felice anarchismo quella certa tentazione agiografica di forma rituale e partecipativa. Lo spazio è disseminato a terra di materiale apparentemente inerte che non ha una propria evidenza ma assume di volta in volta una diversa significazione; sembrano alghe nella battigia di una spiaggia ma allo stesso tempo ci rimanda alle profondità marine regno di una vegetazione prorompente e “oscura”; cordame che rinsalda rapporti quando invece non ne imprigiona le libertà, corde di segregazione, prigionia, schiavitù; saranno poi i dreadlocks dei performer, per certi versi un “collante” di tracciati allusivi e meta-percettivi lì a definire non soltanto visivamente i quadri che si susseguono in scena (nella definizione “intensificata” che ne dà Luca Brinchi) ma per riannodarne le inammissibili licenze estetiche – direbbe Alain Badiou – delle traboccanti metafore del “nero” quale stigma dell’altro, lo straniero, l’abisso, la paura, il colore-non-colore che ancora oggi terrorizza questa cultura figlia di un Illuminismo deviato e a senso unico (quello dei ricchi), insaziabilmente votata allo sfruttamento. Limitativo parlare soltanto di danza, sebbene quei corpi siano perfettamente e con grande rigore assorbiti dalla danza in una cornice-manifesto che ordisce il senso di If there is no sun; è nel movimento che prende carattere una processualità armonico-fonetica e sonora che lambisce un dolore ancestrale con ripercussioni contemporanee; è nella danza che si coagula l’incontro tra artisti di diverse culture, come la cantante e beatmaker Karima DueG, di origine liberiana, i danzatori senegalesi Antoine Danfa e Mapathe Sakho e il performer tunisino Ilyes Triki. Ancora una volta la coreografa-danzatrice Irene Russolillo dà prova di un notevole coraggio nel ripensare il proprio lavoro ponendosi in una postazione creativa di ascolto, di quelle singolarità capaci di portare con sé il rimosso e i dispositivi ideologici che quei corpi in qualche modo rappresentano. Come nella sfera concettuale di una “altermodernità” – indicazione data da Nicolas Bourriaud nel suo Il radicante – l’artista inventa percorsi fra i segni: «è un semionata che mette le forme in movimento, inventando – attraverso e con esse – tragitti per mezzo dei quali si elabora in quanto soggetto (…).

Foto di Monia Pavoni

Ritaglia frammenti di significazione, raccoglie campioni, realizza erbari di forme» (4), portando ciò che fu “detto” in un’altra lingua rispetto alla sua, alla nostra, in un terreno di esperienze da condividere. Ma non è soltanto uno spettacolo di danza. If there is no sun nella sua dilatazione percettiva ha una complessità stratificata per fonti e riferimenti, testi poetici di grande tensione (Ladan Osman) e concettualmente chiarificatori come Jihad di Felwine Sarr che i performer hanno tradotto in lingua Wolof e Araba, dove la stessa cantante-performer (produttrice e molto altro ancora) Karima DueG, che ha una potenza vocale macerata, profonda ma naturalmente levigata, mixa testi di Sun Ra (da cui la rimodulazione del titolo di questo lavoro) ed elabora suoni che sinuosamente vi si innestano, è organicamente una concept-opera, è un racconto fatto di tanti universi, è l’Africa delle deportazioni schiaviste archetipo del presente e la black culture di un afrofuturismo della Detroit postindustriale (il riferimento è ai Drexciya), ai sui distretti urbani, ai miti acquatici, anfibi (come potenzialità di essere l’uno e l’altro, l’una e l’altra, individuo e comunità) e alla techno, quale collante politico che tutto rielabora in quella surreale e graffiante memoria collettiva di un’origine perduta e dove la musica e la danza cercano di ricreare una possibilità alternativa, quasi onirica, come un atto di liberazione individuale. Le lingue e i suoni sgretolano i confini, l’uno nei molti sono i corpi degli approdi in una terra fatta di mare e metafore dell’andare in questo lavoro superbo e, vale sottolinearlo ancora, prepotentemente anarchico. Grandissima prova dei performer.

Note
1) Donatella Di Cesare, Il tempo della rivolta, Bollati Boringhieri, Torino, 2020, p. 111.
2) Carl Schmitt, I nomos della terra nel diritto internazionale dello “jus publicum europaeum”, Adelphi, Milano, 1991, p. 94.
3) Lilian Thuram, Il pensiero bianco. Non si nasce bianchi, lo si diventa, add editore, Torino, 2021, p. 133.
4) Nicolas Bourriaud, ll radicantePer un’estetica della globalizzazione, Postmedia Books, Milano, 2014, p. 53.