La scena della danza italiana che per comodità chiamiamo contemporanea aggiorna i propri segni di demarcazione molto velocemente, con improvvisi scatti in avanti e repentini arresti su posizioni consolidate del linguaggio, spesso informato, questo (il linguaggio), da una overdose di interferenze “memorabili” (afferenti a un parco di agnizioni e recuperi della memoria introiettati e rimessi in circolo con personali intuizioni) e da immaginari più decisamente pop. Dentro e fuori lo spazio percettivo della performance, le esperienze artistiche in questo decennio contraddicono felicemente, ancora una volta, le parole d’ordine delle diverse tradizioni (anche dell’ultramoderno) ridefinendo un ampio ventaglio di possibilità creativa, profondamente inclini a smontare l’ovvio della forma per costruire in primis una condizione, un paradigma dello stare in ricerca, una pratica in soggettiva mentre si fa tracciato d’esperienza nella progressiva lettura del presente. Due lavori nella loro parabola opposta sembrano insistere in questa (apparente) condizione, di un lavoro in progress e allo stesso tempo compiuto seppur nella messa a disposizione dello spettatore di materiali ed elementi paradossalmente emotivi; emotivi nei termini in cui quel rilascio di una certa loro narrazione “personale”, delle frasi, del gesto danzato, della scrittura ch’è corpo e spazio e che si fanno archivio in un caso eco di una improvvisazione, nell’altro un campo semantico stracolmo di significanti: Sull’attimo di Camilla Monga e Best Regards di Marco D’Agostin.
Se il primo visto al CANGO di Firenze innerva la vertigine del movimento glissando l’ossessività di un processo a innesti continui, il secondo visto al Teatro Palladium di Roma è dichiaratamente inabissato nell’esplorazione di una radice affettiva, di cui si sente debitore. Se Sull’attimo si costruisce nell’insieme degli interventi dei performer e del musicista in scena (straordinario) quali segmenti di una partitura “collettiva”, quasi una scia ininterrotta dialogante tra azione e partitura sonora, Best Regards ha una polifonia centripeta di un “solo” amplificatore di immaginari in un quadro nutrito dagli elementi che il performer “deposita” in scena come puzzle da ricomporre, una tavola warburghiana, una fantasmatica coloritura di impressioni. La struttura di Sull’attimo vede un musicista al pianoforte con accanto una batteria percussiva sui quali interviene animando una composizione originale allusiva a tutto il Novecento, da Erik Satie a Keith Jarrett, giostrandosi magistralmente tra la tastiera e le bacchette e a volte suonando entrambi contemporaneamente; una sorta di canto e contro canto nel fluire delle entrate ed uscite dei danzatori in quel disegno di precario sciame di una improvvisazione dentro l’ossatura drammaturgica incastonata nella scrittura scelta. Ogni interprete è autore delle “sfasature” che smarginano, osano la variazione sul tema dato, una ulteriore lettura dello spostamento percettivo nell’equilibrio della forma, che qui ha riferimenti chiari a un certo neoclassicismo di derivazione archeologica del gesto. Il suono raccorda il tempo che a sua volta modifica quel gesto, geroglifico e vibratile, in una definizione di effetti per certi versi pulsionali, intangibili, eco – appunto – di una concertazione organizzata per schemi coreografici o patterns.
Con Best Regards Marco D’Agostin sintetizza in levare una sua configurazione precisa nel côté di una generazione di coreografi-performer “fuori fuoco”, affine al teatro dei Danio Manfredini per un certo mal de vivre del tutto autonomo però (e con una dose incandescente di autorialità originale) nel riappropriarsi di tracce, nell’enumerare riferimenti (anche letterari o musicali) o nello spossessarsi di un corpo, il suo, che diventa tramite oppure trasfigurazione ma sempre, assolutamente, senza mai separarsi dalla propria autobiografia, lì mostrato con pudicizia confidenziale allo spettatore nella misura di una rovesciata ironia. Uno stare in ricerca, una condizione si diceva, nell’omaggiare in questo lavoro la figura di Nigel Charnock, protagonista con gli inglesi DV8 e in percorsi solitari di una danza (e per estensione di un’arte) aperta, a suo modo “scoperchiata” seppure nel rigore coreografico, al quale D’Agostin rivolge una lettera non recapitata prima, e lo fa in questo tempo (in questo «imprevisto del tempo» direbbe lo stesso D’Agostin) che sembrerebbe pervaso da un vuoto di senso, lo fa con un pensiero persino intimo, un atto di riconoscenza a distanza, di cui siamo meta-testimoni in quella frammentazione di innesti teatrali, pezzi danzati e cantati (“luminarie” da avanspettacolo pop), recuperi di una personale memoria, dell’incontro col maestro nel 2010 (scomparso nel 2012) e di reperti propri a una collezione di riferimenti affettivi, altrimenti detti di formazione. In scena tesse una infinita e iperbolica trama, si appropria della densità di un tempo dilatato e subito dopo compresso in cui «le lettere si caricano di destino»; è la sua vita – d’altronde – a fare capolino, a farsi destino scenico, quella del protagonista, in una performance di grande bellezza e così malinconicamente à rebours, così indicibilmente danza.