Ancor più disseminato nella città e province limitrofe, l’edizione 2022 del festival Attraversamenti Multipli di Roma fa tappa anche al Parco di Torre del Fiscale, quadrante che si definisce per aree archeologiche e naturalistiche in un tessuto urbano affastellato di storia e peripezie architettoniche. La sintesi cercata dai due direttori Alessandra Ferraro e Pako Graziani sembra quella di una continua distonia dal presente, chiamando in causa progetti (e dunque artisti) impegnati a definire il loro equilibrio sul crinale di una interrogazione continua dell’attualità. In quel farsi “memoria” di una eredità di segni ma allo stesso tempo sbilanciandosi verso una contemporaneità che sta cercando oggi, in questo pericoloso momento da revanscismo culturale, le sue parole e una sua postura per rivendicare una identità soprattutto linguistica, oltre le logiche estetiche o da clan di questi anni. Inoltre, la dimensione “urbana” del festival è qui maggiormente amplificata dalle aperture a perdita d’occhio di una natura prorompente, benché addomesticata dal “regolare” ordine di un parco cittadino frequentato tutto il giorno, così da ripensarsi, l’urbano, calibrando ancora una volta il concetto stesso di spazio altro, ulteriore rispetto alla scena viandante, al crocevia di accadimenti fortuiti nelle “strettoie” della città, persino al paradosso degli incontri casuali che l’arte urbana tutta mette in gioco, e perciò non nelle “feritoie” di strade o piazze ma in quell’irregolare “dislivello” percettivo che viene a crearsi tra spettatore, natura, performance e scenari arcaici che il parco in questione determina, per certi versi amplifica. Scrive, d’altronde, Nicolas Bourriaud: «Se oggi il tempo si è spazializzato, la forte presenza del viaggio e del nomadismo nell’arte contemporanea si rapporta alla nostra relazione con la Storia: l’universo è un territorio in cui tutte le dimensioni, sia temporali che spaziali, sono percorribili» (1). Qui sono stati presentati, tra gli altri, due lavori diametralmente opposti, due “soli” che in qualche misura ci restituiscono la temperatura di un pensiero danzato esploso, portatori a loro modo di congiunzioni con punti cardinali di riferimento decisamente distanti, tuttavia mostrando di attingere a una remota algebra di innesti e richiami comuni. O, se non altro, vicini.
Carlo Massari con Metamorphosis in Natura si misura con le possibilità di un corpo ferino, soma e psiche dialetticamente ispessiti da un motivo catartico, una lotta tra sé e lo spazio circostante, un vero e proprio corpo contundente in una arena fatta di prato e polvere, un corpo in combattimento capace di cedere e riemergere dalle sue stesse ferite in quella che ci appare una narrazione coerente con gli elementi sonori lì a ricordarci il disastro ambientale degli allevamenti intensivi e dell’eccessivo consumo di carne nell’alimentazione dell’uomo (riverberi nemmeno tanto velati che ci rimandano alle tesi di Jonathan Safran Foer in quell’esemplare libro Possiamo salvare il mondo prima di cena. Perché il clima siamo noi). Coerenza di un corpo che si fa carne, allora, corpo abusato, oltraggiato, ritratto nel tentativo di trovare una sua possibilità tra cadute rovinose e plastici rivoltamenti, tra accenni a una fuga e sconquassi a terra, come per comprenderne la dimensione emotiva oltreché fisica di quello spazio, forse abitarlo, renderlo prolungamento di una condizione, anzi dando voce alla dimensione animale che di quella condizione ne è la tessitura drammatica sulla quale è imbastita la struttura della performance. Capace di toccare corde di una danza lineare e armonica, Massari sceglie il dolore in questo Metamorphosis in Natura argomentando per buona parte del lavoro una notevole energia (con un carattere che gli è proprio fin troppo pulito), un corpo muto parlante soltanto attraverso le azioni e il fiato nella dinamica di uno spreco (felice) del movimento, ma cambia rotta verso il finale nondimeno avvertendo l’esigenza di lasciare il piano traslato del segno e dell’iperbole semantica per appropriarsi di una didascalia non necessaria, che nulla aggiunge a un lavoro di forte impatto e ben costruito.
Spostandoci di poco nel segmento del parco occupato dal festival, prende vita sempre en plein air il lavoro di Nicola Galli Il mondo altrove: una storia notturna, prospettiva rovesciata al precedente seppure incuneato in una ricerca che non si nutre di vocabolari né di fraseggi di questa con-temporaneità, non glissa il presente certo, ma si inabissa in un archivio di immaginari e riferimenti antropologicamente potenti e conturbanti da regalare al nostro presente nuove domande e affezioni misteriche liminali al rito, alla con-partecipazione tra gesto e sguardo. Chissà se il giovane coreografo-performer per questo suo prezioso lavoro abbia preso spunto dall’indimenticato studio di Carlo Ginzburg che sulle storie notturne, sui riti e le metafore dell’oltremodo ha innervato nella cultura del nostro tempo un immaginario remoto di esperienze nella Storia e della Storia alimentando motivi di ricerca etnografica, in combutta con lo “stordimento” di un ultramoderno svuotato del religioso nella vita. Per certo troviamo in Il mondo altrove: una storia notturna una infinità di ganci e rimandi dal libro di Ginzburg, in scena resi con pregevole destrezza coreografica e una grande capacità di spostare continuamente il senso di ciò che si sta vedendo, per cui lo spettatore è chiamato a ricalibrare costantemente il proprio posizionamento, il proprio punto di vista. Non soltanto per la sua dimensione linguistica (visionario come un Prélude à l’après-midi d’un faune ma altrettanto insinuante come una tensione sempre crescente del corpo alla Mary Wigman), anche però per una certa proiezione verso “l’ignoto” dello spettacolo in cui siamo disposti a perderci. Con una maschera a suo modo prodroma della Commedia dell’Arte, si aggancia ai riti campestri o ai pleniluni arcaici proiettando quel corpo fuori da sé oltre sé, rimuovendo le “incrostazioni” dell’adesso mostrando infine un racconto immemore. Sposta pietre, cadenza quasi levigando l’aria con una gestualità perplessa, orchestra lo spazio di una celebrazione antica in quell’assoluto della presenza e della natura con un discorso danzato bellissimo.
Nota
1) Nicolas Bourriaud, Il radicante. Per un’estetica della globalizzazione, Postmedia Books, Milano, 2014, pp. 208, euro 21,00.