«Nelle pause, nei semitoni, nelle voci sommesse pareva di udire il respiro, la pigra musica di una sera d’estate. Un ritmo d’acqua dormiente, una lentezza ipnotica, come se il lago affatturasse gli attori». Angelo Maria Ripellino non poteva certo esserci, alla prima de Il Gabbiano (Čajka) di Čechov messo in scena da Stanislavskij nel 1898, eppure, in qualche modo, sembrava essere proprio lì, in un palchetto del Teatro d’Arte, a registrare i movimenti dell’anima. Il trucco e l’anima si intitola, non casualmente, il saggio romanzo del poeta, traduttore e professore palermitano, pubblicato per la prima volta nel 1965, che ancora oggi rappresenta lo strumento d’accesso più rigoglioso alla vita e all’arte dei maestri del teatro russo del Novecento. Ripellino annota «il ritmo d’acqua dormiente, il potere ipnotico dell’acqua» che Stanislavskij cattura, interrogando Il Gabbiano. Si potrebbe dire che da quel primo gesto originario nasca una certa inclinazione malinconica delle messe in scena cechoviane, una disposizione sonnambolica all’ascolto del movimento dell’acqua, suono che «affattura», producendo un incantamento, uno stato letargico. In un diverso passaggio del suo saggio, Ripellino scrive: «Per vedere Il Gabbiano, gli studenti facevano di notte la fila, nel gelo; e aspettavano l’alba, che il botteghino si aprisse, leggendo sotto i lampioni o ballando per riscaldarsi». Un’altra immagine-cardine, che sembra nascere dalla penna di chi, in quel momento, si trova, assieme agli studenti di Mosca, a fare la fila di notte leggendo e ballando sotto i lampioni di una città gelata.
È questo che fa la scrittura: creare mondi, mostrarci dettagli che sembrano passati al microscopio, come se chi racconta narrasse tutto in presa diretta, arrivando a stenografare e trattenere con parole ardenti ciò che è difficile trattenere, perché la vita e i pensieri vanno a un ritmo troppo veloce.
Il titolo, spia luminosa
Abbiamo riaperto il volume di Ripellino dopo aver assistito all’ultimo spettacolo di Liv Ferracchiati, anche regista dello spettacolo prodotto dal Piccolo Teatro di Milano, che ne ha anche accolto il debutto al Teatro Studio Melato. Il titolo dello spettacolo, Come tremano le cose riflesse nell’acqua (Čajka come sottotitolo) è il filo di Arianna nel labirinto del Minotauro, un filo a cui è necessario tenersi stretti perché fa da spia luminosa. Come viene serenamente dichiarato dall’autore, Come tremano le cose riflesse nell’acqua fa parte del corpo a corpo che lo scrittore, regista e attore sta combattendo con i classici, in un processo che mira dichiaratamente anche a fare di se stessi il primario campo di battaglia. Il punto di riferimento è, in questo caso, Il Gabbiano di Čechov che Ferracchiati ha riletto e ritradotto, grazie alla consulenza letteraria di Fausto Malcovati, il Ripellino dei giorni nostri. Rispettando la macrostruttura dell’opera cechoviana, non solo gli interpreti ma anche gli spettatori hanno potuto concentrarsi su tutto ciò che è pensiero laterale, lavoro dell’anima inquieta, senza dover fare lo sforzo di chiedersi: chi è Maša, chi è il Dottore in questa versione?
Vedersi allo specchio
Fin dalle didascalie iniziali, Ferracchiati rilegge a modo suo il ruolo che ogni personaggio recita nella commedia della vita. Irina Arkadina diventa «La Madre, una grande attrice forse in declino», Nina «una che vuole fare l’attrice o la rivoluzione», il Dottore (Dorn), «uno sazio della vita», il Maestro (Medvedenko) «uno a cui tocca camminare», lo Zio (Sorin, fratello di Arkadina), «uno che voleva essere ma non è stato», il Romanziere Trigorin, «uno a cui piace pescare ma deve scrivere», la Vicina (Maša), «una che porta prugne o il lutto per la sua vita». Il Figlio (Kostja), infine, colui che è all’origine e alla fine di ogni gesto o pensiero, è «uno che prova a influenzare la realtà con la scrittura». Ferracchiati sceglie, dunque, una precisa linea di condotta poetica fin dall’inizio, e non vacilla, chiedendo al se stesso regista di restare fermo rispetto alla visione dell’autore, senza per questo cadere in una posizione di retroguardia. Detto ciò, l’intero spettacolo non è un dialogo solipsistico. Liv Ferracchiati dimostra acuta sensibilità nei confronti del lavoro dell’attore, come dichiarano già in partenza certe sue scelte programmatiche: Roberto Latini recita se stesso interpretando Trigorin, così come Laura Marinoni viene convocata per la sua maestria recitativa ma anche per quello che ha rappresentato nel teatro italiano. Tutti gli attori, da Marco Quaglia (il Dottore) a Nicola Pannelli (lo Zio), da Giovanni Cannata (il Figlio) a Cristian Zandonella (il Maestro), da Petra Valentina (Nina) a Camilla Semino Favo (Maša, la Vicina) danno il meglio di sé, creando una partitura rigogliosa che respira sempre, anche nei piani d’ascolto (la prova del nove dell’arte recitativa). Liv “vede” i suoi attori, che a loro volta dimostrano di saper “vedere” cosa si agita al fondo di queste acque profonde.
L’intollerabile
E cosa si agita nel fondo ce lo dice già il titolo: Come tremano le cose riflesse nell’acqua. Da dove viene questa seducente immagine? Da un romanzo breve di David Foster Wallace, Caro vecchio neon (pubblicato in Italia da Einaudi all’interno della raccolta Oblio). Oblio precede di soli quattro anni il suicidio dello scrittore statunitense che il 12 settembre del 2008 si sarebbe impiccato nella sua casa californiana. Wallace viene citato più volte all’interno dello spettacolo, in un ipotetico, impossibile confronto tra l’aspirante scrittore (ricordiamo che qui Kostja viene chiamato più radicalmente il Figlio) e lo stesso Wallace. Gli spettatori sono quindi autorizzati a pensare: questo nostro autore, Liv Ferracchiati, deve sentirsi ben poca cosa rispetto all’autore di Infinite Jest. Questa è, diciamo così, la parte “tollerabile” del discorso, e infatti viene dichiarata esplicitamente. La parte meno tollerabile, che agisce a livello più inconscio, ha a che fare invece proprio con il suicidio di Wallace.
Come è noto, Il Gabbiano si chiude con il suicidio di Kostja. Nell’opera di Ferracchiati, il finale è affidato ad uno straziante addio del Figlio che, dopo aver tentato di convincere Nina a ricominciare (ma ci crede veramente, o non è tutta una sua fola?) e di fronte al rifiuto di lei, si avvia verso “il bianco”. A quel punto non è più Nina la destinataria delle ultime parole di Treplev, ma la Madre. Qui c’è un Figlio che parla drammaticamente alla Madre, origine e fine della sua stessa vita: «Ti faccio paura mamma…Inghiottimi mamma… nuotare nelle tue lacrime… in un bianco che acceca/ un liquido amniotico senza forma/ io senza forma/ inghiottimi risucchiami/ lasciamo tornare a casa/ dammi la pace/ le tue labbra sulla fronte come estrema unzione/ ascolta la mia preghiera mamma/ come quando ero piccolo / tornare nel bianco dell’inizio e della fine».
La questione della ricerca delle nuove forme, che pure guida il testo anche in questa rilettura, si confonde, fino ad esserne inglobata, con la questione edipica, che diventa centrale dal momento in cui Ferracchiati crea una identificazione tra la Madre e il personaggio di Gertrude. Al Figlio non resta che interpretare Amleto, non sul palcoscenico, ma nel dramma stesso del vivere, compito rispetto al quale si sente inadeguato. È dunque, l’incompiutezza, la difficoltà a trovare il proprio posto nel mondo, l’impossibilità di essere “visti”, compresi e apprezzati, che accomuna Amleto e Kostja.
Sparire nell’oblio
Il Figlio/Amleto di Ferracchiati arriva a sparire nell’ “oblio”, risucchiato dalle acque dell’ignoto. Il lago di Čechov diventa così specchio di tutte le cose, non solo scenograficamente: il fondale acquatico del primo atto si impone, nella sua siderale lucentezza, come punto di attrazione ipnotica. «Di tutti gli elementi, l’acqua è il più fedele specchio delle voci»: sono i versi di Tristan Tzara rievocati in un saggio di Gaston Bachelard, Psicoanalisi delle acque, un testo-miccia che, assieme a Il trucco e l’anima di Ripellino, emerge investigando le nostre stesse impressioni e i detriti lasciati affiorare in superficie, a distanza di qualche giorno dalla visione dello spettacolo. Bachelard insisteva sull’origine fonetica delle parole, sulla “materialità” del linguaggio poetico, che trae nutrimento dall’acqua, dal fuoco, dall’aria e terra. «Colando dalle foglie dopo il temporale, ci sono gocce che occhieggiano (clignotent in lingua francese) e fanno tremare lo specchio luminoso delle acque. Nel vederle, le si sente fremere» annotava Bachelard nel suo saggio. Curiosa assonanza con «le cose riflesse nell’acqua» che «tremano». Anche Foster Wallace si dannava per andare all’origine materiale della lingua, cercando di inseguire l’inconoscibile.
David Foster Wallace
Ho sempre pensato che il suo suicidio avesse a che fare con l’insopportabile velocità dei pensieri che affollavano una mente nuda, geniale, esposta alle intemperie, incapace di oblio, affollata di ricordi e informazioni che cercava di trasformare immediatamente in prosa, poesia, reportage. «Oggi ho ricevuto qualcosa come 500.000 informazioni. Forse quelle rilevanti sono 25. Il mio lavoro è provare a dargli un senso» scrisse una volta. E le altre 475 informazioni? Dubito che Wallace riuscisse a sbarazzarsene. Tanto era fervida la sua immaginazione, prodigiosa la sua memoria. Sembra che anche David Foster Wallace avesse un rapporto molto stretto con la madre, docente di letteratura inglese al College di Champaign, in Illinois. In particolare, era ossessionato dalla voce della madre che leggeva a voce alta l’Ulisse di Joyce. Con lei, ma anche col padre, comunicava spesso attraverso le lettere. Pare che fosse una consuetudine in casa Wallace. Si scrivevano lunghe lettere per esprimersi meglio.
Per tutta la vita, David Foster Wallace ha combattuto il “male oscuro” (è così che viene denominata romanticamente la depressione). Nelle settimane che precedettero il suo suicidio, la madre gli stette particolarmente vicino (anche se David, nel frattempo, si era felicemente sposato con l’artista Karen Green). Gli preparava i suoi piatti preferiti: torte salate, fragole con la panna. «Continuavamo a dirgli che eravamo felici che fosse vivo. Ma la mia impressione era che ci stesse già lasciando. Ormai non ce la faceva più» (da Gli anni perduti e gli ultimi giorni di David Foster Wallace di David Lipsky, pubblicato su “Rolling Stone”, 20 settembre 2020). Pima di impiccarsi, David scrisse alla moglie una lettera di due pagine che Karen Green ritrovò in garage. Non sappiamo che cosa ci fosse scritto. Ma se riapriamo le pagine Caro vecchio neon troviamo più di un indizio, una prefigurazione di quello che sarebbe accaduto quattro anni dopo. «Per tutta la vita sono stato un impostore… Ho creato un’immagine di me da offrire agli altri. Più che altro per piacere o per essere ammirato»: inizio folgorante. Procediamo. «So che tu sai bene quanto me quanto i pensieri e le associazioni mentali attraversino fulminei la testa… La maggior parte dei pensieri e delle impressioni importanti attraversano la mente così rapidi che rapidi che rapidi non è nemmeno la parola giusta… che per dire per esteso pensieri e collegamenti contenuti nel lampo di una frazione di secondo richiederebbe come minimo una vita intera». A chi sta parlando? Chi è quel tu? Andiamo avanti: «La velocità mentale interna è perfino più veloce in punto di morte». E ancora: «Le parole non bastano». Nelle pagine conclusive del racconto, l’io narrante nomina proprio David Foster Wallace che, a causa della «cosa» che premeva «dall’interno», si sarebbe «suicidato in modo così teatrale e indubbiamente doloroso». «Non una parola di più»: sono le parole conclusive del racconto.
La parola che esplode nella testa
Se dobbiamo inseguire la sottile linea di pensiero che suggerisce l’opera di Ferracchiati, Foster è un Amleto contemporaneo, così come Kostja è una riedizione moderna di Amleto. Tutti e tre sono ossessionati dal bisogno di dare ordine alle cose, di trovare quella forma che possa placarci e spingerci verso un sonno tranquillo. Ma il mondo, per loro, è destinato a scoppiare nella testa, tra le mani. Kostja esce di scena con un colpo di pistola. Amleto, dopo aver compiuto una carneficina, morirà nel duello con Laerte. David Foster Wallace si impicca.
Come tremano le cose riflesse nell’acqua è anche una potente riflessione sull’atto linguistico. Discendente di Amleto, fratello elettivo di David Foster Wallace, Kostja è il Figlio che cerca di dare ordine al caos. Per lui scrivere e vivere sono la stessa cosa: «In principio il Verbo spostò la Materia». Si esalta, il Figlio, nel momento in cui scrive che «un gatto è saltato da un ramo all’altro» e dalla finestra vede realmente un gatto saltare da un ramo all’altro. Al modo di Jane Austen, cerca come poter «far cose con le parole». Ma alla fine del suo breve viaggio dovrà fare i conti con il proprio vuoto interiore. Una madre potente si erge di fronte a lui, giudicante, vanitosa e forse anche colpevole, come Gertrude. La sua amata lo abbandona per la seconda volta, inseguendo anche lei ben altri fantasmi. Che cosa gli rimane? I fogli sono sparsi per terra. Tutto è finito e lui che non riesce più a scrivere, non riesce neanche più a vivere né a pensare: «Sono come un lago prosciugato sparito nella terra/ riesci a sentirmi / un proiettile conficcato nell’osso della fronte /. Più nulla mamma… Solo vuoto/ ti è mai capitato mamma di sentire il vuoto/ mamma».