La prima impressione, che poi si rivela sempre quella corretta, è che bisogna alzare lo sguardo oltre i confini nell’approcciarsi all’ultimo lungometraggio di Marco Amenta, Anna, scritto insieme con Anna Mittone e Niccolò Stazzi (con la collaborazione di Tania Pedroni) e presentato nella sezione Notti Veneziane delle Giornate degli Autori all’80ª Mostra d’Arte Cinematografica (nell’ambito della quale ha ricevuto una menzione speciale al Premio FEDIC Federazione Italiana dei Cineclub). I confini, per fare un esempio, assegnati dall’ambientazione – siamo in Sardegna, un’isola, spazio per eccellenza delimitato dal mare che lo circonda. O dall’uso del dialetto, come ogni dialetto circoscritto e lontano dalla standardizzazione linguistica.
La Anna del titolo è una giovane donna tornata al paese natale dopo un’esperienza di vita a Milano che percepiamo subito dolorosa e di quelle che lasciano il segno sulla pelle (e non è un modo di dire). Ha ripreso in mano la piccola attività pastorizia nell’appezzamento di terreno appartenuto per decenni al padre, portandola avanti con modi di conduzione e produzione antichi e rispettosi. Quando una multinazionale francese invade trionfamente e col benestare delle istituzioni la sua proprietà per costruirvi un albergo di lusso, la nostra è costretta a ingaggiare una battaglia durissima per difendere la terra – la propria ma in fin dei conti quella di tutti – dalle mire del colosso cementizio.
Giuridicamente sfavorita (le manca, per assurdo, un atto notarile), Anna si oppone con tenacia e fierezza alla devastazione del territorio. Sola contro tutti: con l’unica eccezione di un giovane avvocato che prende le sue parti e fino al finale che ribalterà lo stato di cose, l’intera comunità la osteggia, accusandola di non stare al passo con i cambiamenti inesorabili che il paradigma/diktat dello sviluppo impone, poco importa in che maniera (la logica, perversa e arcinota, che investimenti di milioni di euro valgono centinaia di posti di lavoro). Nell’anatema scagliatole addosso si serrano in un unico fronte il capitalismo avido e predatorio e il pensiero bigotto e maschilista (maschilista, ma più che latente pure in tante sue compaesane).
Come si vede, giusta la sensazione di cui dicevamo in apertura, ben più ampia è la traiettoria di questo Anna. Nel racconto della lotta della protagonista, ispirato a una storia vera (del resto quante vicende analoghe e quante Anna conosciamo?), confluiscono i temi attualissimi e cogenti della tutela ambientale e della violenza di genere (non a caso c’è una partnership con Italia Nostra e la Fondazione Una nessuna centomila) e il film vive di contrasti valoriali forti – identità vs globalizzazione, salvaguardia della natura/bellezza/memoria vs modernità/consumo/sviluppo ad ogni costo. Pure al netto di una scansione narrativa non sempre ottimale, il tutto è portato senza artifici o pedanteria, volutamente rinunciando alla compostezza e alla pulizia formale e anzi preferendo “sporcare” (il personaggio, l’immagine, il movimento) a vantaggio del senso e dell’emozione.
Anna non ha la ieraticità dell’eroina tragica di fronte al fato o divinità che sia, tuttavia non è difficile vedere in lei l’archetipo di un eterno femminino che non si lascia sconfiggere, come il vecchio ulivo che l’ha protetta neonata mentre la madre moriva improvvisamente e che, scosso dal maestrale, si è adattato per resistere. Non cessando, però, mai di essere se stessa, mossa unicamente dal rapporto viscerale che la lega a quella terra e da un anelito di libertà che si traduce in un quasi istintivo e non meditato rifiuto di assoggettarsi ai soprusi, lei che ne già subiti. Con sue scabrosità e le sue debolezze, donna reale, imperfetta ma autentica (cui dà corpo sullo schermo un’intensa e credibilissima Rose Aste).
In attesa della distribuzione nelle sale, in programma un’anteprima e un incontro col regista all’interno della manifestazione I GRANDI FESTIVAL Da Venezia a Roma e nel Lazio, organizzata dall’ANEC Associazione Nazionale Esercenti Cinematografici regionale.