Beercock, ovvero magnificenza antica di Paolo Ruffini

Foto di Vincenzo Guerrieri.

Finito X Factor si rischia l’inedia, lo svaporamento di senso, l’ennesima attesa fibrillante di un altro prossimo frullatore mediatico (quanto mai necessario per far sbrodolare il cervello), l’ennesima giostra insomma del già visto e del già sentito, un’altra “recita” di uno ordinario format consuma neuroni dove producer, danzatori e costumisti fanno la “voce grossa” rispetto agli “artisti”, quei gggiovani (con tre “g”) candidati al Sanremo di turno che sono poi quasi sempre poca cosa rispetto al giogo delle major discografiche. E dove i suoni e il mood del sentimento vocale registrano uno strabiliante conformismo creativo, un’assordante mediocrità. Ha ragione Manuel Agnelli, lisergico front man dei non più giovani Afterhours, nel continuare imperterrito a ripeterci di trovarci in un vuoto percettivo  di un presente immobile (non ha detto proprio così, ma la metafora è quella) proprio dal palcoscenico di un X Factor straripante più che mai, e chissà rivolto a quale uditorio, forse ad altri, ulteriori contenitori sforna modellini di plastica, come se il “suo” X Factor ne fosse esente. E se il talentuoso appuntamento di Sky/TV8 ci rimanda a un prossimo anno lasciandoci però la convincente consapevolezza di Casadilego, con una ricerca nella battuta strada dell’indi-folk ante litteram affollata da fantasmi (versione superba ma unica scintilla la sua A case of you dell’infinita Joni Mitchell), una strada d’altronde poco compresa dal folletto Hell Raton suo mentore, intento purtroppo a consumare il proprio spazio inventivo dentro i soliti riff e accenti rap, seppure ricercatissimi e raffinati. E che dire di quelle due anime belle di Emma e Mika? Sentimento, sentimento… Ecco, siamo rimasti soli, quasi abbandonati, Oddio è finito X Factor! Eppure la presenza massiccia di uscite sul web o al negozio di quei dischi pronti da non si sa bene quando, subito d’oro per le visualizzazioni, sono lì per rincuorarci; dove la canzoncina appena sfornata si consuma come una falena al fuoco, dove il mercato ha aggiornato le sue regole, dove la comunicazione, cioè la pletora di fan proni a quel circo televisivo organizzato è strumento di coercizione subliminale (neanche tanto subliminale), stereotipato e sessualizzato e a cui tutti siamo invitati a partecipare come un (falso) rito collettivo, voyeurismo da quattro soldi dal quale non riusciamo a sottrarci. Non basta il ruggito d’antan del demiurgo Agnelli che da rocker consumato a petto nudo si esibisce per rimarcare un territorio che però non è più lo stesso da almeno vent’anni. Tutto oggi è immagine, lo sappiamo, ma rimarcarlo facendo finta di non crederci sa di furbizia. Meglio nelle vesti di conduttore di Ossigeno, meglio, sì.
È pur vero che con l’assenza della trasmissione guidata dal Manuel nazionale, Ossigeno appunto, sebbene resista l’eccellente Nessun dorma di Massimo Bernardini sempre sulla RAI, sono rari se non insistenti tutti quei possibili contesti dal carattere in qualche modo mainstream (di opportunità pop) dove poter entrare in relazione con musicisti soprattutto se di recente formazione, dove provare a scarnificarne il lavoro e tradurne l’idea di progetti anche “anomali” rispetto alla media delle banali intemperanze della “classifica”, illustrandone così i presupposti squisitamente strumentali o del pensiero che ne configurano il progetto musicale-artistico, ne disegnano la filosofia di vita. E che rispettino l’interlocutore di turno, non lo trattino come carne da macello.
Prendiamo il caso di Human Rites, secondo album di un artista complesso e ricco di sfumature come Beercock, siciliano nato oltremanica formatosi nel gesto perfomativo quasi danzato per poi irradiarsi in concrezioni musicali profonde e che arriva in questi giorni all’ascolto da un circuito “minoritario” e indipendente per esplodere in tutta la sua bellezza di un progetto ricercato e decisamente per nulla provinciale o clone quanto la maggior parte degli omologhi generazionali (e non solo). È possibile sintetizzare memoria terrigna, concreta, corporale, con suoni ancestrali riletti in materie sintetiche, riverberi gospel e una matrice così dolorosa e beatificante che solo il soul riesce a destrutturare? È possibile, e Beercock ci riesce alla perfezione tanto da innervare in infine varianti, traiettorie musicali di brani che definirli “canzone” è riduttivo, ne impoverisce l’idea di opera che in quell’anima, in quel movimento commovente delle sottrazioni vocali e delle inspirazioni, si costruisce come un “racconto” intimo di temi sonori antichi e contemporanei al tempo stesso, ritornanti di eco e frastuoni ambientali, come rifrazione rumorale e percettiva. Human Rites è difatti un concept album laddove il tessuto sonoro dialoga con processi di arte visiva che lo compendiano, restituendo una modulare configurazione che non distingue il fare del gesto dal piano visivo da quello sonoro (basti pensare al video di Feel Your Fall). Il corpo e la voce ne caratterizzano il centro, un corpo che si direbbe timbrico usato come strumento e una voce dalla magnificenza antica, unica, matura e fragile, magmatica, potente e delicata, ma poi è tutto l’album un sistema di cerchi concentrici, di andate e ritorni nelle quali fanno capolino le altezze di un Robert Plant incarnate nel fiato arcaico di un James Blake più cristallino. Nei crediti si ricorda che l’album «è stato prodotto interamente da Fabio Rizzo, utilizzando un solo microfono per registrare tutte le parti vocali e i battiti del respiro e della mano, elaborandoli per costruire il muro del suono delle tracce: una vera e propria performance in studio dell’artista e del suo produttore». Ed è distribuito dalla piattaforma Bandcamp nei formati digitale, CD e vinile, un vero e proprio sorprendente sottobosco della ricerca nelle esperienze musicali non assoggettate alle tendenze imposte dal mercato. Dal precedente Wollow del 2017 questo nuovo lavoro di Sergio Beercock trattiene forse una sotto traccia brechtiana (decriptando la parola nelle interferenze dei suoni) ma si riempie di ascolto in ascolto di molteplici caratteri, distillati di un cantautorato post wave irradiato dagli archetipi provenienti da celtiche archiviazioni nelle tribali “rovinose” solitudini, di un brulicare tempestoso di coste marine, dall’odore percepibile del sudore, come in Cling, brano che chiude l’album, un canto sull’addio, una melodia d’archivio appunto, archivio della commozione, e dove la voce si fa presenza, quell’archivio di un tempo che non è più: «I’m one out of a million a bird resting on a tree – stop bringing water to the roots and to me – i’ve no roots – darling – it’s a hard thing to see – ‘cause you have blossoms – ‘cause you are the tree», abbandonandosi alla definizione di un pianoforte.
Ogni traccia contiene e dilapida immersioni nei graffi “urbani” di una consonanza afro-americana che esaltano la grandiosità vocale dell’autore: See You Around The Bend ha un ritmo da rito collettivo, canto spiritual liberatorio corale e ritmato con le mani prima che la grana digitale dei suoni si espanda; Unfolded è la naturale continuazione verso un sistema di canti inondanti, di memorie depositate, di ancestrali grida di liberazione; My Day Becomes An Hour sembra di vederlo questo, eseguito in una chiesa presbiteriana con uno straordinario dosaggio del fiato, del respiro, della sospensione emozionale, con un coro lì a ritmare e a modulare vocalità ispirate. Ma è tutto nelle sua voce, nella sua capacità di recuperare, sistematizzare e inventare segnando una architettura che dagli anni Settanta  giunge fino a The Name Of Things ritrovando suggestioni della Contemporary R&B.
Un disco imperdibile.

Sergio Beercock, Human Rites, dicembre 2020, euro 13,60.

L’album è realizzato col sostegno di MiBACT e SIAE nell’ambito dell’iniziativa “Per chi crea”. Testi, musica, voci e body beats sono a cura di Beercock. Prodotto, registrato e mixato da Fabio Rizzo a Indigo Studio. Arrangiato con Francesco Leineri e masterizzato da Stabber. Artwork: Alba Scherma.