“Bidibibodibiboo” attraverso “Diario di un dolore”. Appunti per un “Alberici progressivo”? di Carlo Lei

Foto di Francesco Capitali

Essere tornati a vedere al TeatroBasilica Diario di un dolore, lo spettacolo del 2020 con Astrid Casali, è un’occasione per provare a ricostruire il percorso di Francesco Alberici come drammaturgo, da quella prova al più recente Bidibibodibiboo, che si è guadagnato l’Ubu come miglior testo italiano nel 2024. Non è il caso di usare Diario, che dimostra oggi anche in sé un’evoluzione rispetto a come si presentava al debutto, solo in funzione di un percorso di avvicinamento a quanto, ora, per uno schiacciamento prospettico, ci sembra l’esito definitivo e maturo dell’ultimo lavoro, come se questo fosse una meta, compiuta e presupposta, l’altro poco più che un cartone preparatorio.
Eppure, benché si eviti questa deformazione interpretativa, è inevitabile accorgersi di come in Bidibibodibiboo si possano ravvisare elementi che segnalano un processo di sviluppo persino lineare rispetto al lavoro precedente, nonostante l’attuale convochi un impegno maggiore da ogni punto di vista, a partire da quello esterno, produttivo. Cinque attori in scena tanto per cominciare, contro i due di Diario, e una scenografia che non solo adombra la convenzione del cambio-scena, per quanto gestito come un unboxing di elementi d’arredo, celati in scatoloni, ma richiede anche uno spazio scenico più generoso – non a caso a Roma lo si è visto al Sala Umberto, dalle dimensioni di palco ben più ampie del Basilica.
Nel primo lavoro tutto il fuoco della ricerca aveva carattere intimo e personale, a partire dalle fonti (il libro di Clive Staples Lewis da cui prende il titolo), proseguendo nel materiale, che espone elementi autobiografici della vita di Casali intervallati da chiose o da controcanti di quella di Alberici. Attraverso il confronto dell’autore con un dolore esterno al suo, un dolore ben poggiato su cause oggettive, egli cerca, ora per tentativi di consonanza, ora con i referti di un contrasto insanabile, di darsi ragione del proprio. Bidibibodibiboo, un testo che ha nell’esposizione di un caso sì autobiografico, ma comunque sempre, nuovamente tangente alla vita dell’autore, magari non in terza ma almeno in seconda persona, si analizza la profonda crisi lavorativa di un fratello, Pietro Alberici, annichilito da un’attività lavorativa prestigiosa ma distruttiva, che dalla psiche invade il corpo dell’uomo, privandolo con chirurgica precisione e quasi inspiegabile affatturazione di ogni forma di serenità ed equilibrio. Qui Alberici compie la scelta di elevarsi dalla questione personale, che flirta con l’autofiction (o comunque ne considera l’ipotesi), per trovarsi naturalmente nel pieno di uno spettacolo politico. In cosa consti poi questa dimensione politica è il nucleo più notevole del testo premiato: essa non si limita a risiedere in una critica alla condizione lavorativa degli impiegati nella consulenza o negli uffici finanziari o simili, ma opera la (iper-) realistica torsione di dichiarare tutti noi, anche chi come l’autore possa consolarsi di una libertà disimpegnata incarnata nel lavoro creativo, assoggettati al sistema di produzione capitalistico, alla sua barbarie. Nulla di nuovo, si dirà, dal punto di vista dell’analisi politica: solo i sognatori più ingenui all’altezza di questi anni continueranno a vivere nell’illusione della purezza e del non coinvolgimento. Ciò che conta, qui, è però il modo in cui si giunge a questa epifania perché, come si vedrà, è esso a essere “politico” di per sé, a stracciare un velo, a indicare una professione critica intima e instancabile che si opera nella scrittura. Dichiara e insieme incarna una qualità della scrittura politica che ha radici antiche (in Brecht, tanto per fare un nome) ma che rivela tutta la sua efficacia oggi.

Foto di Simone Galli

Ma torniamo al “progresso” della scrittura: esso è leggibile nel trattamento che molti processi e materiali comuni a entrambi i lavori subiscono, primo fra tutti, insieme a quell’ipotesi autobiografica o autofinzionale, l’impostazione dichiaratamente epica, la mancanza di ogni illusione scenica, il rivolgersi direttamente agli spettatori. Ne fa parte l’esplicitazione delle fonti, siano esse letterarie o di arte visiva (ora l’opera di Cattelan che dà il titolo al testo più recente, presente nel libretto di sala, parte integrante del percorso dello spettacolo; ora quella di Franz Ecke che, col suo titolo Autoritratto, pare fare da sottotitolo a tutto Diario). E c’è, come elemento comune strutturale, una forma discontinua, che nel solco ormai tradizionale del postdrammatico si appoggia su continue fratture, digressioni o rimodulazioni del percorso.
È proprio la forma di queste fratture, il senso che esse assumono all’interno del processo di scrittura a segnare la più notevole differenza tra i due testi. E, si direbbe, il segno della più notevole conquista di Alberici: la capacità di tenere insieme del materiale (e di complesso multiforme materiale teatrale si sta parlando) non solo libero da una struttura esplicita, ma anche cavalcando il privilegio di fare a meno di una tesi iniziale e della necessità, nell’ottica di un processo di lavorazione (o di ciò che di esso si vuol far filtrare) di una revisione omologante, che restituisca pacificato il travaglio del testo. Se in Diario di un dolore la costruzione ha oggi una forma a rondò, nella quale, come si anticipava, ai ricordi di Casali, impariamo che sempre farà da controcanto un intervento di Alberici, nello spettacolo più recente l’autore decide di rinunciare a questa rassicurante struttura alternata per avventurarsi in una ricerca formale più esposta. La prima parte, in cui si dichiara l’argomento, e in cui Alberici dichiara che impersonerà il fratello Pietro e a Daniele Turconi sarà assegnato il ruolo di Francesco, viene a un certo punto messa in crisi, prima con lo scivolamento “a scena aperta” del ruolo di Maria Ariis dalla manager dell’azienda a madre dei due fratelli, poi con la messa allo scoperto di Francesco come Francesco e l’ingresso di un altro attore, Salvatore Aronica, a impersonare Pietro. Lo stesso andirivieni tra il dentro della narrazione, una rappresentazione in piena regola, e l’allocuzione al pubblico, non si poggia su nessuna regolarità o modulo, è anzi imperscrutabile. È come se quella che in apertura di Diario di un dolore Alberici dichiarava, apertis verbis, come una sua debolezza d’autore, cioè quella di prendere l’avvio di un testo, di scegliere, per così dire, una strada nella scrittura, sia qui accettata e persino cavalcata. Come se un inizio non fosse per sempre, una volta per tutte, ma si rivelasse costantemente disponibile a dichiararsi parziale, superabile, fallibile. L’Alberici autore e personaggio del testo confessa di voler parlare di un fallimento soprattutto per «tenersene lontano».

Foto di Francesco Capitani

Eppure anche Diario, visto nel suo complesso, è uno spettacolo perdente, consapevolmente fallito: lo dichiara l’autore stesso in scena, quando senza vergogna ammette di aver rinunciato a scrivere sul proprio dolore e di provare invidia per la struttura che quello di Astrid Casali può vantare: un’orfana in giovane età, con il padre morto di cancro in un’inarrestabile caduta, mentre la naturale prospettiva di maturazione di un rapporto adulto e pacificato tra genitore e figlia è stata anzitempo recisa. Tutto Diario di un dolore non era dunque che una rinuncia a dare corpo autonomo al proprio dolore e insieme un tentativo di appropriazione di quello altrui – ognuno può vedere l’autore in scena mentre ascolta il racconto di Casali con ammirazione e partecipazione, e una certa oscena, per quanto misurata golosità nello sguardo. Ma la missione principale, a cui sarebbe certo seguita una taumaturgica catarsi, è fallita, e l’insuccesso lascia Alberici in balia della nota ma inspiegabile, apparentemente gratuita e subdola sofferenza che lo perseguita.
Il modo in cui Bidibibodibiboo elabora il proprio fallimento è diverso: esso ha a che vedere con quella libertà formale di cui si parlava. È esempio politico, oltre che drammaturgico.
Primo: il fallimento qui entra con maggiore consistenza nelle parole del testo. Alla breve e lapidaria confessione di Diario sull’invidia del dolore di Astrid, qui Alberici oppone un’intera ultima parte dello spettacolo, nella quale lo squallore di un teatrante messo di fronte all’impossibilità di proseguire il proprio lavoro (Pietro infatti ritira il suo consenso a mettere in scena la propria storia personale a pochi giorni dal debutto) non è da meno di quella di un impiegato umiliato e annichilito dai meccanismi aziendali, e quella “libertà” che un artista potrebbe rivendicare si sfalda sotto un’identica logica di profitto, di convenienza, di mantenimento di una posizione pubblica. Ed è un duplice crollo, professionale/politico e personale.
Secondo, e più importante: lo stesso brancolamento dell’autore, non solo è dichiarato nelle battute («Che cosa vuole fare con questo spettacolo?» gli chiedono gli altri personaggi) ma viene esperito strutturalmente in re, in un impaginato del testo che si richiama, si ravvede, si contraddice mentre si fa o poco dopo, si getta nel vuoto; costruisce e demolisce un indirizzo di scrittura che pareva definitivo; si prende gioco di chi guarda umiliando anche chi fa (l’esecuzione chopiniana che Alberici performa al pianoforte non è che una patetica finzione). Tutto ciò dimostra la qualità di una forma/contenuto che emerge durante, in un corpo a corpo con la scrittura, la quale non si perita di cancellare né di denunciare (come faceva in Diario attraverso la confessione sugli inizi dei testi) le proprie cicatrici, ma che anzi fa di esse materiale. L’impressione è proprio quella di un testo che arditamente si fa nel momento in cui si fa, che abdica alla presentabilità di un programma o di un progetto o di una tesi, che si dichiara e si espone nel proprio costruirsi, addirittura nel proprio chiedersi cosa stia dicendo, a cosa punti – e poco conta se questo risultato corrisponda effettivamente a come sono andate le cose sullo scrittoio di Alberici, se cioè la scrittura sia per davvero proceduta attraverso rimodulazioni e sterzate, o se si tratti di un espediente letterario. Alla domanda (e torniamo al testo detto) «Che cosa vuoi raccontare?», «Sto cercando di capirlo» risponde Francesco. Sto cercando di capirlo: questo, nel caso di Bidibibodibiboo potrebbe essere il sottotitolo del lavoro. Una dichiarazione di poetica.

Foto di Francesco Capitani

L’estrema onestà (onestà letteraria, s’intende, nessuna accezione morale), l’accettazione del fallimento e la sua messa in opera come spinta propulsiva del testo e del farsi testo, unite alla libertà di non darsi una forma sommativa e intonacata portano in dote il risultato di un affaccio sperticato su un panorama dalla doppia, tripla profondità. Diario di un dolore, come si diceva, si apre e si chiude quale opera intima, lirica; Bidibibodibiboo, partendo dal personale, atterra nel contesto politico e civile, ma riesce poi, sfondando un ulteriore diaframma, a mettere piede sopra un dolore e uno smarrimento nuovi, ancora una volta intimi ma che, attraverso il rispecchiamento nella società e la disillusione di fronte al sogno di vivere in essa mantenendosi indenne, migliore, si riscoprono ancor più inesorabili, esistenziali nel senso più ampio.
Se da tutto ciò una via di fuga è suggerita, essa potrebbe ahimé essere nel Non fare arte, nel Non far debuttare quel lavoro la cui esistenza sarebbe per Pietro insopportabile, e non importa se finalmente pareva condensarsi, aggiustamento dopo aggiustamento, come presentabile. La soluzione, forse, è l’astensione, la rinuncia, il silenzio una buona volta.