
Un nutrito gruppo di giovani attori e attrici in abiti casual (tutti allievi della Scuola per Attori dello Stabile di Torino) occupano il palcoscenico di un teatro dai contorni dimessi aspettando che il loro Direttore (Jurij Ferrini) li guidi dentro i meandri, a tratti oscuri, di una commedia di Pirandello. Nel dinamismo delle entrate e delle uscite (c’è chi arriva da una scala laterale, chi pulisce il retropalco ascoltando la musica in cuffia, chi si affanna a ricapitolare la scaletta dello spettacolo, chi a rimediare oggetti di scena, chi a suonare il pianoforte bianco posto di lato), nella disinvolta energia che li pervade, nell’atmosfera ludica ma professionale in cui si muovono, essi si mostrano semplicemente per quello che sono: teatranti alle prime armi già chiamati a recriminare un loro deciso bisogno artistico e un terreno di crescita che li proietti verso il futuro. Necessità che sembrano tuttavia confliggere con la dichiarata crisi del teatro italiano, con la carenza di un repertorio drammaturgico contemporaneo, con le decennali aporie di un sistema produttivo che fatica ad abbracciare il nuovo e preferisce, piuttosto, volgere lo sguardo al passato. Ed ecco allora il triangolo amoroso de Il giuoco delle parti di Pirandello divenire il loro campo “minato” di esplorazione, guidati da un regisseur vago e indeciso che, pur mostrandosi un demiurgo affettuoso, non nasconde la sua personale confusione creativa e pedagogica.

Inizia con questo omaggio alle giovani leve della nostra scena la personalissima lettura che Valerio Binasco (regista e interprete nel ruolo del Padre) ci propone dei Sei personaggi in cerca di autore in un allestimento che, debuttato nell’aprile del 2023 a Torino e approdato all’Argentina di Roma le sere scorse dopo una lunga tournée, prende le debite distanze da un certo cliché registico riservato alla celebre pièce pirandelliana, opera fondativa e rivoluzionaria della drammaturgia del Novecento, e si assume la lucida responsabilità di cambiarne alcuni aspetti nevralgici per avvicinarla alla sensibilità contemporanea e, tanto più, per valorizzarne i suoi lati comici, gioiosi. D’altronde, già questa prima sezione dello spettacolo (che ricorda per molti versi l’impianto di un bel lavoro di Spiro Scimone intitolato Sei visto da chi scrive a Napoli nel 2018) è una cornice del tutto inventata; o meglio, un’attualizzazione estrema delle caratteristiche di quella compagnia in prova che da lì a poco assisterà all’improvviso e misterioso sopraggiungere dei Personaggi della commedia da fare.
Questa invenzione registica sembra, dunque, voler dire al pubblico che qui si intendono affrontare con leggerezza tematiche quali la concretezza del lavoro attoriale, il rapporto tra interprete e personaggio, la dialettica tra realtà e finzione – in pratica tutto ciò su cui i teatranti stessi riflettono ogni giorno – partendo dal presupposto che Pirandello oggi non va più bene se lo si lascia nel suo pirandellismo, nel suo concettismo, nelle sue tessiture melò, persino nella sua metateatralità filosofeggiante. Affinché lo si possa realmente incontrare, comprendere e amare va, insomma, condotto a noi. Nello specifico poi dei Sei personaggi è solo grazie all’innesto tra il dramma familiare proprio dei Personaggi e la sensibilità di una classe di giovani allievi attori pronti a farsene carico che la vicenda funziona e arriva alla platea.

Il rischio è certamente quello di snaturare la natura complessa e a suo tempo geniale che l’opera, notoriamente fischiata al suo debutto al Teatro Valle nel 1921 quando agli spettatori in sala parve un vero e proprio “manicomio”, possiede: la forza extra-ordinaria propria di una visione poetica che è una visione – quasi una preveggenza – squisitamente scenica e una grande lezione sulla trasmutabilità del testo teatrale (basti leggere a tal riguardo le splendide pagine che Ferdinando Taviani gli dedica nel breve saggio Entrano in scena i sei personaggi, edito nel volume Uomini di scena, uomini di libro, Il Mulino, 2005).
Binasco dimostra di voler correre questo rischio fino in fondo e costruisce un marchingegno scenico coerente solo in parte con la partitura originale ma senza dubbio coerente con se stesso e i presupposti che lo muovono. Scrive nelle sue note: «Per me il plot principale, ovvero quello della crisi di una compagnia, è importante. Questa crisi si incarna quasi totalmente nel Regista-Direttore. Lui è il medium. La compagnia dei giovani attori, che percepisce di vivere un’epoca di crisi del teatro, è a sua disposizione. Farebbero di tutto per lui; e per sé stessi. Questi attori non sono per noi i citrulli incapaci di Pirandello, attori e attrici annoiati e in ritardo, stupidi, fatui, senza alcun interesse per quel che fanno. La nostra compagnia è fatta di giovani – interpretati dalle ragazze e dai ragazzi della Scuola per Attori del Teatro Stabile, giovanissimi davvero, nei primi anni della loro formazione – che, con il loro entusiasmo e la loro ingenuità, a volte anche la loro acerbità e goffaggine, sono attenti e sensibili. E queste loro qualità fanno percepire ancora più acutamente nell’animo del Regista-Direttore il disagio della sua inadeguatezza. Il Regista-Direttore, in prospettiva contemporanea, vive la crisi di insensatezza del fare teatro oggi. Non sa più cosa deve fare. Sa solo che per salvarsi la vita deve comunque fare qualcosa».
Per prima cosa, dunque, il regista trasforma la ritrosia e la resistenza del Capocomico e della sua compagnia in uno slancio di accoglienza e ascolto. Motivo per cui l’arrivo in scena di queste strane figure provenienti da un tempo e un luogo indefiniti – qui ridotte a quattro poiché i due poveri bambini morti vengono inizialmente solo evocati – non va a confliggere con la fisicità tangibile degli attori in prova. Semmai, tale stravagante visita apre un canale di curiosità, di comunicazione, di dialogo. Eppure, a livello visivo, l’incontro tra i due mondi risulta ovviamente stridente: da un lato, energici ragazzi di oggi orchestrati da un regista dal fare morbido e gentile (un Ferrini assai disinvolto e credibile); dall’altro, quattro ombre, quattro fantasmi vestiti con abiti anni Venti (costumi a firma di Alessio Rosati), incupiti da un trucco pesante sul volto, che paiono scolpiti, ciascuno, dentro un codice fisico e vocale molto netto.

Il Padre interpretato dallo stesso Binasco si mostra, ad esempio, stanco, dimesso, impaziente e quasi stufo: le battute corrono veloci, la voce è spesso cauta, l’incedere sottotono, l’emotività tenuta a bada con una voluta noncuranza. Viceversa, la Figliastra di Giordana Faggiano (Premio Le Maschere come attrice emergente nel 2023 proprio per questo ruolo) è pervasa da un fremito di accesa volontà di rappresentazione, che trasforma la celebre risata acre del personaggio pirandelliano in una sorta di leitmotiv sonoro imprescindibile, spesso accompagnato da posture sensuali, scomposte e volgari, eloquenti del suo dramma personale ma secondo noi a tratti eccessive. Più misurata e poetica ci è parsa la Madre, cui Sara Bertelà regala intense sfumature drammatiche lasciando trapelare tutto il dolore di una donna ferita nei suoi amori più grandi e spaventata all’idea di riviverne ogni volta la ferocia. Infine, il Figlio di Giovanni Drago somiglia ad un manichino quasi deprivato di umanità che si oppone con granitica fermezza all’incontro con il teatro e dunque alla messa-in-vita della sua vicenda: mosso da qualche scatto di nervi, chiuso nel suo mondo silenzioso e imperscrutabile, egli rappresenta probabilmente la distanza tra l’Autore e la scena e la sua intima tragedia non può che terminare in modo grottesco, persino fumettistico, con quel colpo di pistola sparato alle tempie e quella macchia di vernice rossa sul fondale, come in un cartoon o in un filmetto pulp.
Al di là, tuttavia, della caratterizzazione di ogni singolo personaggio, l’allestimento attraversa i suoi momenti più convincenti quando l’entusiasmo dei ragazzi/attori entra nelle pieghe di questa umanità alla deriva e ne tenta un salvataggio attraverso il teatro. La scena clou ambientata nel salottino di Madama Pace, la morte del Giovinetto e della Bambina (un registro lirico investe a questo punto la rappresentazione), il ballo scatenato e osé della Figliastra sono alcuni dei passaggi maggiormente emblematici, tanto più tali perché in linea con quel disfacimento della famiglia che negli ultimi anni è stato un tema di indagine drammaturgica e artistica molto caro a Binasco (pensiamo, per esempio, a due sue recenti regie quali La ragazza sul divano del premio Nobel Jon Fosse e Cose che so essere vere di Andrew Bovell).
Non è un caso, d’altronde, che anche qui il traliccio della trama familiare sia molto chiaro e che emerga con particolare enfasi anche grazie all’essenzialità cui è stato ridotto il testo originale (ed ecco il secondo grande intervento operato da Binasco sui Sei personaggi): asciugata notevolmente la verbosità della partitura dialogica, sono spariti molti passaggi filosofici e dialettici, molti di quei monologhi “ragionanti” che in buona misura connotano l’intero repertorio pirandelliano, tanto più quello metateatrale. Peccato. Perché in parte ne sentiamo la mancanza, non tanto per ossequioso rispetto nei confronti del drammaturgo siciliano ma per una necessità di comprensione che rischia, secondo noi, di restare appesa. Usciamo infatti da teatro con il dubbio che Pirandello funziona se lo si lascia più o meno Pirandello. Se lo si attualizza nella misura e nei contorni in cui è sempre attualizzabile un classico. Proprio perché tale.
Sei personaggi in cerca d’autore
da Luigi Pirandello
regia Valerio Binasco
con (in o. a.) Sara Bertelà, Valerio Binasco, Giovanni Drago, Giordana Faggiano, Jurij Ferrini
e con Alessandro Ambrosi, Cecilia Bramati, Ilaria Campani, Maria Teresa Castello, Alice Fazzi,
Samuele Finocchiaro, Christian Gaglione, Sara Gedeone, Francesco Halupca, Martina Montini, Greta Petronillo, Andrea Tartaglia, Maria Trenta
scene Guido Fiorato
costumi Alessio Rosati
luci Alessandro Verazzi
musiche Paolo Spaccamonti
suono Filippo Conti
aiuto regia Giulia Odetto
assistente regia e drammaturgia Micol Jalla
assistente scene Anna Varaldo
assistente luci Giuliano Almerighi
produzione Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale.
Teatro Argentina, Roma, dal 19 al 30 marzo 2025.
Prossime date:
Teatro delle Muse, Ancona, dal 10 al 13 aprile 2025.
Teatro Municipale, Piacenza, 16 e 17 aprile 2025.